Ed ecco, Noi vi creammo prima e poi vi plasmammo e poi dicemmo agli angeli: “Prostratevi ad Adamo”; così essi si prostrarono, ma non Iblis. Invero, egli non fu fra i prostrati.
Chiese: “Che cosa ti ha impedito di prostrarti, ché te l’avevo ordinato!” Rispose: “Io sono meglio di lui: mi hai creato dal fuoco, lui l’hai creato dal fango”
وَلَقَدْ خَلَقْنَـٰكُمْ ثُمَّ صَوَّرْنَـٰكُمْ ثُمَّ قُلْنَا لِلْمَلَـٰٓئِكَةِ ٱسْجُدُوا۟ لِـَٔادَمَ فَسَجَدُوٓا۟ إِلَّآ إِبْلِيسَ لَمْ يَكُن مِّنَ ٱلسَّـٰجِدِينَ
قَالَ مَا مَنَعَكَ أَلَّا تَسْجُدَ إِذْ أَمَرْتُكَ ۖ قَالَ أَنَا۠ خَيْرٌۭ مِّنْهُ خَلَقْتَنِى مِن نَّارٍۢ وَخَلَقْتَهُۥ مِن طِينٍۢ
Questo è solo uno dei molti passaggi del Corano che menzionano Iblis — talvolta identificato con Satana — ed il suo rifiuto di prostrarsi ad Adamo secondo il comandamento di Allah. Lo storico delle religioni e del testo coranico si interesserà fruttuosamente delle fonti di questa leggenda, da rintracciarsi nell’apocalittica giudaica e cristiana, ad ulteriore conferma dei molti indizi di una forte influenza nestoriana sul testo del Corano.
Ciò che qui voglio brevemente commentare è l’interpretazione dei sufi di questa storia coranica. L’interpretazione tradizionale vuole in questo racconto una rappresentazione del peccato primigenio del diavolo, identificato in Iblis, che si sarebbe macchiato di disobbedienza verso la divinità rifiutandosi di adorare Adamo. L’interpretazione sufica del passaggio ne ribalta il valore, facendo di Iblis il personaggio positivo della storia, messo alla prova da Allah, il suo Amato. Il rifiuto di adorare Adamo coincide con l’obbedienza al tawhid, il principio dell’Unità e Unicità divina, portato fino al suo estremo — fino al paradosso di disobbedire alla divinità per rispettare la divinità. In quest’ottica, Iblis diviene il modello del vero musulmano e del mistico, l’amatore che non è disposto a prostrarsi che all’Amato.
A latere, non si può non notare che questo non è l’unico caso di — non voglio usare il termine hegeliano “falsa coscienza”, preferisco un’espressione più contadina — coda di paglia nella cultura musulmana rispetto al diavolo. Ricordiamo anche i famigerati “versetti satanici” nel Corano o la tristemente nota comunità degli yezidi che sembra venerare una figura assimilabile a Lucifero.
Rifiuto di Adamo, rifiuto di Cristo.
Il significato religioso più evidente di questa rivalutazione sufica della figura di Iblis è l’emersione della ostilità fondamentale al cristianesimo che la dottrina del tawhid instilla nell’Islam. Infatti il significato dell’assurda richiesta di adorazione dell’uomo di fango fatta da Dio agli spiriti di fuoco può essere rettamente inteso solo se riportiamo la richiesta alla sua origine biblica e alla interpretazione che ne danno i cristiani, fra i quali probabilmente fu concepito il racconto:
“E l’hai fatto poco meno degli spiriti, e con gloria ed onore lo hai incoronato”
ἠλάττωσας αὐτὸν βραχύ τι παρ᾽ ἀγγέλους, δόξῃ καὶ τιμῇ ἐστεφάνωσας αὐτόν·
וַתְּחַסְּרֵהוּ מְּעַט, מֵאֱלֹהִים; וְכָבוֹד וְהָדָר תְּעַטְּרֵהוּ
Salmo 8, 6
Nel cristianesimo antico, questa lode dell’uomo, espressa in realtà come culmine e strumento di una lode cosmica a Dio, fu interpretata come anticipazione cristologica del Verbo Incarnato. è Cristo l’uomo fatto “poco meno degli angeli” e “incoronato con gloria ed onore”. Questa fusione dell’Adamo appena creato, archetipo e progenitore della razza umana, con il Verbo Incarnato, Gesù figlio di Giuseppe, vissuto a Nazareth all’inizio della nostra era, può sembrare a prima vista incongrua, ma è ben comprensibile alla luce della teologia di san Paolo. L’Apostolo delle Genti parla di Gesù come nuovo Adamo, Primogenito di una creazione più perfetta in quanto attore principale della Redenzione, che emenda il peccato innestatosi a causa di Adamo nella creazione primordiale. Se la tipologia Adamo-Cristo viene presa sul serio, se ne deve concludere (e molti Padri lo fecero) che non Cristo è l’immagine di Adamo, ma Adamo appena creato fu creato a immagine di Cristo, anche perché l’Incarnazione è tanto una parte fondamentale dell’identità di Dio che è impensabile, da un punto di vista cristiano, una realtà senza Verbo Incarnato, sicché se ne deve dedurre che, anche se Adamo non avesse peccato, avrebbe potuto godere della compagnia di Gesù, Dio-Verbo Incarnato. L’Incarnazione era dunque nel piano di Dio fin da prima dell’inizio e parte della sua identità di Dio, e non l’Incarnazione è conseguenza della creazione, ma la creazione è modellata e “causata” in un certo senso dall’Incarnazione; in questo senso potremo conservare tutte le formulazioni che fanno il Verbo partecipe della creazione di Dio (a partire dal Credo Niceno: “per mezzo di Lui tutte le cose sono state create”, che ricalca il Prologo del Santo Teologo: “tutto è stato fatto per mezzo di Lui etc.”), senza però cadere nel nestorianesimo affermando che, quando il Verbo partecipava alla creazione, Gesù di Nazareth non c’era. Adamo fu dunque creato come icona di Gesù e, seguendo il ragionamento, dovremmo pensare che Adamo e la natura umana di Cristo, la carne nel senso ampio e semitico del termine, siano del tutto uguali. Gesù, nella sua vita umana, fu Adamo come sarebbe potuto e dovuto essere Adamo se non avesse peccato. Adamo è dunque icona in un senso che a noi latini spesso sfugge, è cioè presenza di Dio nella creazione — e altrimenti non se ne spiegherebbe la signoria e la facoltà di dare nomi alle cose, se Dio è Potenza e Conoscenza al sommo grado.
Alla luce di questa complessa teologia che, ricordiamolo, fu elaborata in larga parte prima dell’invenzione dell’Islam, si capisce bene per quale motivo i sufi, probabilmente più avveduti a riguardo delle dottrine cristiane rispetto al fedele musulmano medio, abbiano voluto riscattare l’Iblis coranico. In realtà, il rifiuto di Iblis di adorare Adamo è il suo rifiuto di farsi cristiano: di ammettere cioè il dogma della Trinità-Incarnazione (scrivo così perché si capisce che i due sono praticamente lo stesso dogma spezzettato in due punti di vista differenti) e la pratica dell’iconodulìa, che di quel dogma è una necessaria conseguenza. Davvero il diavolo è il miglior musulmano, perché pronto ad andare contro Dio stesso per esaltare l’unicità di Dio; e davvero il miglior musulmano rifiutando Cristo rifiuta Adamo e si condanna, perché il suo è un Dio solitario inerte e tristo, torreggiante così alto sopra ogni cosa che la sua presenza è una assenza d’acciaio: come può un Dio tale dare gioia ai suoi fedeli? E d’altronde, Adamo è solo creatura di fango e non di fuoco, perciò la sua gioia è ben poca cosa.
L’amore.
Andando al di là della dogmatica, ciò che mi interessa di più notare della figura di Iblis e della sua valutazione sufica sono le implicazioni naturali. L’atto di disobbedienza di Iblis viene molte volte reinterpretato e raccontato come l’atto di un amante disperato, crudelmente messo alla prova dal suo Amato. In tal modo la storia di Iblis può assumere le forme della lirica erotica araba, persiana e turca, poiché entrambe le situazioni sono unite dall’esperienza mistica sottostante, che esse manifestano analogicamente. E dunque la storia di Iblis è una storia d’amore o, più propriamente, la storia dell’amore, cioè l’exemplum del tipo di amore richiesto al fedele musulmano nella sua forma più alta e sublime. Non è un caso che l’amore che ne emerge sia antitetico al concetto d’amore cristiano, perché ogni volta che si parla di Dio si parla d’amore e se, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, le visioni di Dio delle due religioni sono del tutto opposte, necesse anche gli amori che le due religioni chiedono e cui educano sono del tutto opposti.
Altro aspetto interessante è che, al lettore superficiale, la descrizione dell’amore mistico dell’Islam apparirà tutto sommato adattabile al misticismo cristiano. Questa è appunto la proprietà della mistica, che posso più prontamente illustrare mediante una analogia. Immaginate una pianura attraversata dall'alveo di un grande fiume placido, largo e poco profondo. Qui è dove camminiamo noi realisti, e le divisioni si vedono molto bene fra un lato e l'altro della pianura. Ma ora, se immaginassimo di raccogliere ogni punto del piano verso un centro posto infinitamente più in alto, come una altissima montagna, la linea tracciata dal fiume diventerebbe una linea sottile e quasi impercettibile, ma infinitamente più profonda, una crepa che nasconde un abisso. Così sono le differenze fra i mistici: le piccole variazioni, a quell'altitudine, significano una divergenza infinita e potenzialmente rovinosa.
L’amore di Iblis per Allah è l’amore disperato dell’amante cui l’Amato non reciproca l’amore. Si tratta di una relazione estremamente semplice — e perciò atta a suscitare misticismo — ed estremamente asimmetrica. La bellezza, l’abbondanza, la soddisfazione, sono tutti in un polo, la divinità, mentre il desiderio, la mancanza, quindi il bisogno e la disperazione, sono tutti concentrati e portati all’estremo in Iblis. Stando così le cose, l’introduzione di una terza persona nel rapporto — Adamo — non può che far precipitare la relazione nelle sue conseguenze più rovinose: Allah presenta ad Iblis un terzo, ma questi è per Iblis nulla in più di ciò che c’era prima, poiché tutto era già nell’Amato; e poiché tutto il desiderio è già in Iblis — non già realmente, perché nulla vieta che anche Adamo ami Allah, ma dal punto di vista di Iblis, che è totalmente assorbito nel suo desiderio —, questi non può riconoscere in Adamo un co-desiderante: “egli è fatto di fango, io sono fatto di fuoco”. In conseguenza di queste cose, l’amore di Iblis non si può aprire ad una terza persona e diviene la sua condanna alla solitudine anche dall’Amato stesso. Invero, Iblis non si condanna per aver adempiuto il comandamento, ma il comandamento è la condanna.
In questo contesto capiamo anche l’uso, largamente attestato in ogni comunità musulmana, della poligamia. Sembrerebbe in effetti un controsenso che questa religione così ossessionata dalla solitudine, dal mono- o wahid, permetta un poli- proprio in un ambito così decisivo per l’intera società come la famiglia. Epperò a ben vedere il ruolo dell’uomo rispetto alla divinità nell’Islam non è come quello del marito nei confronti della moglie; viceversa, è Allah il Marito archetipico, ed ogni musulmano una moglie in un certo senso, e cioè in tanto quanto l’attitudine religiosa ha plasmato e forgiato l’amore naturale del corpo sociale, ossia la famiglia. D’altronde questa analogia non è, io credo, così ben attestata negli scritti islamici, dove il teologo ed il mistico hanno più ritrosia al farsi emasculare rispetto al cristianesimo, che così volentieri mette le donne a modello di comportamento degli uomini.
Assai più spesso è l’attrazione omoerotica a fornire il modello letterario e analogico del rapporto con la divinità, sicché possiamo senz’altro vedere nell’Islam l’autentico erede della attitudine platonica verso la divinità, vista come ente del tutto passivo e splendente solo della propria bellezza, che gli esseri più imperfetti devono sforzarsi a contemplare. Anche Platone infatti, per illustrare questo schema fortemente asimmetrico, faceva riferimento alla cultura omoerotica delle élite sociali del suo tempo. Ciò si spiega proprio con la definizione di quell’amore, che non ammette “terzi”, intrusi fra l’amato e l’Amante: un tale amore non può certo riflettersi nel fenomeno della famiglia, la quale per sua propria definizione è espansiva e tende a ricomprendere sempre più persone all’interno del rapporto. L’amore omosessuale è caratterizzato da sterilità e da un certo grado di violenza, psicologica o fisica, sicché si presta al meglio a rappresentare la relazione fra questa divinità che è tutta pienezza e l’uomo che è tutto bisogno. Poiché inoltre l’omosessualità è una forma di amore che irrompe dal di fuori dei legami sociali strutturanti e che spesso rischia di distruggerli (pensiamo alle cricche di aristocratici sovversivi ateniesi, le eterìe, a fine V secolo), l’amore per la divinità nell’Islam ha come risultato la sovversione dei rapporti convenzionali (e naturali) a favore della gelosia e della solitudine.
Tutta contraria è la concezione dell’amore naturale dei cristiani e questo fin dal primo capitolo del primo libro del santo profeta Mosè. Lì la creazione sessuata dell’uomo, nucleo primitivo della famiglia e dell’amore naturale, è presentato esplicitamente come riflesso di una pluralità e relazionalità divina che, come già si capisce dal precedente paragrafo, trova nel dogma trinitario la sua formulazione perfetta. è così istituito un rapporto di somiglianza e non di completa alterità fra Dio e l’uomo, non preso però come singolo essere ma come ζῶιον πολιτικόν, vivente in comunità. La somiglianza originaria si compie poi nella società redenta della Chiesa, che l’Apostolo paragona ad una sposa innamorata dello sposo. Due cose principalmente sono qui da notare. Primo, che il matrimonio prospettato da san Paolo come modello e conseguenza della vita ecclesiastica è monogamo, il che significa che pone anche al marito vincoli di fedeltà che, alla luce della Croce, giungono fino a versare il proprio stesso sangue per la moglie. Secondo, che ad amare Dio nel Nuovo Testamento non è solo, e anzi è solo secondariamente il singolo fedele, ma piuttosto sempre una comunità, una Chiesa.
Tutto ciò rivela una concezione del tutto diversa dell’amore dovuto a Dio da parte dei cristiani. L’amore di Dio non può esser visto come una mania, come l’ossessione e la passione dell’amante per il coppiere o per la bella infedele — per citare alcuni luoghi comuni della poesia orientale — che esclude dal suo sguardo ogni altra cura e persona. Se è vero amore, pensa il cristiano, non può tagliare i ponti fra l’amante e il resto del mondo in forza di un desiderio totalizzante. Sarebbe una chimera assurda, un amore che desidera ben unire, ma per farlo deve violentemente recidere; la contraddizione può darsi solo in quanto questo meccanismo è irrazionale, è una passione. Al contrario, se l’amore deve essere coerente con se stesso, e dunque vero anche allo scrutinio della ragione, allora deve essere unitivo verso tutti; non però in disordine ma secondo le articolazioni che la realtà offre. Così l’amore dell’uomo verso la moglie non ha le stesse caratteristiche di quello del padre verso i figli, e dell’uomo retto verso i suoi pari e dell’uomo caritatevole verso i più deboli e fragili, dando a ciascuno ciò che secondo giustizia e bontà è loro proprio, in un sistema di cerchi concentrici che, dall’amore di Dio verso l’uomo, si espandono sempre più e si incontrano con altri a formare una complessa rete di amori di diversa natura e intensità, che però tutto abbraccia, tutto sorregge, tutto nutre.
Questo è il senso profondo non solo dell’unico comando in due nature (come uno è il Verbo vero uomo e vero Dio) del cristianesimo, l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ma anche di tutta una serie di dogmi che i non cattolici, soprattutto musulmani e protestanti, rimproverano alla Chiesa. Della Trinità s’è già detto, parliamo dunque del culto dei morti. Noi preghiamo per i morti, chiediamo l’intercessione dei santi, perché non possiamo ammettere che l’amore di Dio ci impedisca di amare i nostri cari morti e coloro che hanno portato lustro alla nostra casa, la Chiesa. Che amore sarebbe, se dicesse “fin qui sì, ma lì no”?
Nel caso dei morti, è chiaro, noi presumiamo che le preghiere per la loro salvezza non fien casse perché il Nostro Dio è “amico della vita” e “non vuole la morte del peccatore” e “la fossa non Gli dà lode”, il che è dire che il suo amore per noi si manifesta anche nell’amare coloro che noi amiamo; perciò, sebbene la resurrezione corporea non sia ancora avvenuta, noi siamo certi che l’amore verso i cari e gli altri cristiani e la misericordia per i morti di tutto il mondo e di tutta la storia sia condivisa da Dio, che anzi viceversa fondamento di questo sentire negli uomini sia proprio l’Amore che è e ha Dio per essi.
Ancor più interessante è il caso della venerazione dei santi, elemento di controversia con l’Islam e il Protestantesimo. Ora, il rivolgersi ad un essere umano come tramite per giungere a Dio sminuirebbe dal punto di vista malcomettano l’amore totale dovuto ad Allah, dal punto di vista protestante la mediazione di Cristo. Infatti i cinque sola luterani possono essere visti come una semplificazione in senso islamico (dunque irrazionale ed errato) della fede cristiana. Ed invece è proprio la mediazione di Cristo — così si potrà rispondere ai protestanti — il fondamento della venerazione dei santi, poiché il Verbo facendosi uomo si è necesse circondato d’una societas di amici e parenti. A meno di non voler ritenere l’Incarnazione soltanto una sceneggiata, sprofondando quindi nel docetismo, dobbiamo credere che Gesù realmente amò ed ama questi amici e parenti; e quale essere umano, per quanto freddo e bestiale, non guarda con favore alle richieste dei suoi amici e dei suoi parenti, o per lo meno di sua madre? Se dunque non vogliamo supporre un conflitto fra la natura umana e la natura divina di Cristo, dobbiamo anche credere che Dio ascolti con favore le preghiere dei suoi santi (“mia madre, sorella e fratello è chi compie la volontà del Padre”).
Bisogna poi refellere l’idea malcomettana che queste nozioni in qualche modo diminuiscano la gloria di Dio. Per l’appunto essa nasce da una concezione gelosa e in ultimo irrazionale dell’amore, che vede in ogni mediazione e pluralità una distrazione rispetto all’oggetto proprio dell’amore. Il potere seduttivo di tale nozione è anche quello dell’economia, perché si vede nel semplice, nel non-mediato e inarticolato maggiore comprensibilità, minore dispersione, maggiore eleganza. Si tratta però di un pregiudizio ingenuo, che il non mediato sia più comprensibile e più economico del mediato. Primo, perché la comprensione implica sempre forme di mediazione, sicché la mediazione avvicina sempre il fenomeno alla mente; certo, rischia sempre anche di occultare il “noumeno” (parlo per analogia) dietro la mediazione; la linea fra mediazione ed idolatria del segno è assai sottile, perché ogni dogma è fatto di mistero e non può essere ridotto a proposizioni semplici e senza contraddizione. La Chiesa Cattolica ha sempre saputo però tenere dentro di sé queste tensioni — ecco esce l’orrendo termine — dialettiche. Secondo, la mediazione potrà forse disperdere le energie sul piano fisico, seppure le teorie sulla termodinamica sono corrette, ma ciò non vale affatto sul piano metafisico e morale. Sebbene la mistica descriva l’amore come fiamma, calore e luce, l’amore non è soggetto alle leggi della termodinamica e ad ogni passaggio non che disperdersi si accresce — ammesso che si tratti di amore vero e razionale. Non è forse un caso che noi italiani diciamo “gelosia” per indicare l’amore di Iblis: se l’amore è fuoco, quel desiderio malvissuto non può che essere gelo, e non solo verso tutto ciò che non è il Desiderato, ma verso il Desiderato stesso, visto razionalmente e da fuori del suo tumulto interiore, il desiderante si trova in un abisso gelido perché reso infinitamente lontano dal suo Amato dalla dinamica insita nel desiderio stesso. La venerazione dei santi, in quanto è il riconoscimento di una articolazione, di un ordine vero, buono e bello nell’amore, in quanto poi è riconoscimento dell’opera di Dio in altri da noi e in quanto espande i partecipanti a questo amore ordinato, creando legami speciali di amicizia (i santi patroni, l’amicizia e gli incontri fra santi durante le loro vite, i santi vescovi che scoprono le reliquie dei santi martiri proponendone la venerazione, i santi Papi che proclamano nuovi santi, la venerazione dei santi per altri santi, il rapporto fra santi ed angeli, in particolare gli angeli custodi ecc), non detrae ma contribuisce sommamente alla gloria del nostro Dio, che è Amore.