Etimo e significato.
Olocausto, dal greco ὁλόκαυστος, composto dell’aggettivo ὅλος, ὅλη, ὅλον, “intero” e dall’aggettivo verbale *καυστός, derivato del verbo καίω, “bruciare”. La radice di ὅλος originariamente era preceduta da una semivocale [w] (in greco, digamma) e corrisponde alla radice dell’inglese “whole”, “wholesome”.
La composizione delle due radici dà il significato letterale di “interamente bruciato”, “bruciato intero”. Nell’uso, il termine afferisce al campo semantico della religione ed indica un tipo di sacrificio nel quale la vittima veniva interamente bruciata sull’altare, senza lasciarne parte per il banchetto sacro, come la consuetudine degli altri sacrifici avrebbe richiesto. Tutto dunque andava alla divinità e nulla rimaneva alla comunità offerente, a significare, più che un sacrificio di comunione fra comunità e divinità, un sacrificio di espiazione, di sostituzione o di richiesta alla divinità.
In senso politico moderno, e per antonomasia, “Olocausto” è il nome del genocidio degli ebrei per mano dei nazionalsocialisti nel XX secolo. Il termine è utilizzato soprattutto dagli anglosassoni (Holocaust) nonostante si diffonda sempre più anche in Europa continentale e, per traslato e in maniera più corretta, viene utilizzato anche per il risultato di una eventuale guerra nucleare a significare la completa distruzione del nemico che quel tipo di arma dovrebbe provocare. In questa voce ci occuperemo solo del primo significato antonomastico del termine.
L’intento di ciò che segue è quello di argomentare la totale infondatezza dell’utilizzo del termine “Olocausto” a riguardo del genocidio degli ebrei, nonché di commentare e capire la posizione che questo avvenimento storico occupa nel sistema ideologico comunemente noto come “Occidente”.
Falsità del termine.
Partendo dal significato materiale del termine, bisogna constatarne la falsità d’applicazione rispetto all’oggetto che esso designa, in tutto come nelle sue parti.
Per quanto concerne l’idea di interezza e totalità del sacrificio portata dalla radice di ὅλος, chiunque può facilmente constatarne l’infondatezza. L’empio sacerdozio dei nazionalsocialisti non è riuscito nel suo intento di sacrificare “interamente” gli ebrei, come non è riuscito a far scomparire sodomiti, zingari, disabili e oppositori politici — comunisti e socialisti, nazionalisti slavi ecc — dalla faccia della terra. Tutte queste categorie sono ancora ed evidentemente qui fra noi. Non si trattò dunque nei fatti di un olocausto. Si obietterà: certo non nei fatti, ma negli intenti si trattava sì d’una distruzione completa. Ciò potrà essere ammesso, ma condurrà a conseguenze ancora più assurde e spiacevoli per chi voglia difendere l’applicazione del termine al suo significato attuale.
Il richiamo al fuoco è direi meno importante di quello all’interezza nel determinare l’applicazione del termine al significato. Se ne possono tuttavia trarre alcune, seppur vaghe, considerazioni. Ad un livello assai primitivo, il “fuoco” sarebbe una rappresentazione fedele di alcune reali pratiche connesse con l’evento, soprattutto in riferimento ai roghi di libri e ai modi con cui i massacratori si disfavano dei cadaveri delle loro vittime. L’idea del fuoco può in un certo senso ribadire il senso d’una distruzione completa, come la radice ὅλος, poiché il fuoco non lascia traccia visibile — verrebbe da dire specie sensibile — della vittima sacrificale. In questo senso l’olocausto sarebbe la cancellazione anche delle tracce e del passato delle vittime, non il loro semplice annientamento fisico. Infine, il fuoco è una forza più impersonale che, per esempio, un’arma. Così chiamano il loro massacro ad opera delle autorità turche e di alcuni elementi curdi i siriaci occidentali: sayfo (ܣܝܦܐ), cioè “spada”. La spada richiama comunque un nemico che personalmente e, si presume, a seguito di una colluttazione, uccide il suo nemico. è assente ogni accezione sistematica, igienica, sacrale, asimmetrica, che l’idea del fuoco porta invece con sé. Il richiamo al fuoco vuole dunque essere un segnale dell’eccezionalismo di quel particolare genocidio o massacro, l’unico — così almeno il nome suggerisce — intenzionato ad eliminare del tutto ogni traccia delle vittime anche la loro anima e mente, l’unico che ha proceduto sistematicamente e l’unico ad aver arruolato, più che le pratiche proprie della guerra, quelle della fabbrica moderna.
Tutto ciò ovviamente non è accaduto (nel senso che non è vero che l’Olocausto è risultato nella cancellazione di ogni traccia delle sue vittime o che sia stato perseguito fin dall’inizio in maniera sistematica e asimmetrica e che non aveva nulla a che vedere con la guerra) ma potrà, come nel caso di ὅλος, essere attribuito agli intenti dei carnefici.
Prendiamo ora in considerazione il significato complessivo della parola che, alle idee del fuoco e della totalità, aggiunge anche una connotazione sacrale: non semplice distruzione completa per mezzo del fuoco, ma sacrificio completo per mezzo del fuoco. Ora, questa connotazione sacrale è il punto centrale del termine “olocausto”, il cuore del problema. La sua falsità è riconosciuta dalla stessa comunità giudaica che parla piuttosto di Scioà, con parola ebraica che preserva il senso di una distruzione totale ma spogliata di qualsivoglia intenzionalità sacrificale. La lettura olocaustica dello sterminio degli ebrei è dunque una particolarità solo di alcuni gruppi fra essi — i meno religiosamente connotati — e degli anglosassoni.
Il senso più naturale del termine sarebbe di supporre una intenzione sacrale nei carnefici. Se c’è un “olocausto”, coloro che bruciano e distruggono debbono essere i sacerdoti e debbono avere come intento ottenere qualcosa dalla divinità. Le conseguenze ributtanti di questa interpretazione sono evidenti: i nazionalsocialisti avrebbero “sacrificato” i giudei per ottenerne un qualche bene; questo sarà forse stato vero dal loro punto di vista, ma l’utilizzo del termine da parte nostra implica l’adozione del punto di vista dei carnefici e il riconoscimento che, in fondo, ammazzare tutti gli ebrei sia cosa buona.
Si potrebbe salvare il significato di “olocausto” proponendone una interpretazione preterintenzionale, secondo la quale sono le conseguenze positive dello sterminio, non volute dagli sterminatori, a riscattarlo e a farne un avvenimento sacrale. Questa è l’interpretazione che più probabilmente si vuole far passare usando il termine; inutile notare quanto ancora più crudelmente sarcastica essa sia: uno sterminio viene giustificato proprio nel momento in cui lo si condanna elidendo l’intenzionalità dei carnefici e, soprattutto, delle vittime, che non si offrirono certo liberamente alla propria morte.
Inoltre, è da notare che in questo senso la parola “olocausto” non può essere vera: non può essere che l’elemento della distruzione totale si riferisca alle intenzioni dei carnefici, non tradottesi nei fatti, mentre l’elemento sacrale si riferisca alle conseguenze di fatto prescindendo dalle intenzioni, perché il senso della parola “olocausto” è proprio quello di un sacrificio totale, non di una distruzione totale che accidentalmente diviene sacrificio. Davvero sarebbe uno strano olocausto quello progettato come distruzione totale insensata e risultato in una distruzione parziale santificata.
Rito e mito.
La falsa applicazione del termine rivela il surplus ideologico che solo la rende possibile. Nomina sunt consequentia rerum, e se le cause del nome non sono nelle cose debbono essere in una intenzione umana che vuole distorcere il senso delle cose. Invero, la falsità del nome “olocausto” è solo uno degli elementi retorici che circondano lo sterminio degli ebrei per garantirne una lettura a senso unico. La mia tesi fondamentale è che l’Olocausto sia il mito fondativo della nostra società.
Chiarisco subito che, parlando di mito, non voglio assolutamente negare la realtà storica di quanto è accaduto. Non si intende qui la parola “mito” nel senso spregiativo di “racconto diverso dal vero”, bensì come nome della funzione sociale che un racconto, sia esso vero o falso, svolge per un gruppo umano. Sono esistiti storicamente miti “veri”, esempio supremo ne è il Mito fondamentale, l’Incarnazione, la Morte e la Resurrezione di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio; un racconto di fatti storicamente e concretamente avvenuti, che però non rimangono sterili “fatti” ma animano e nutrono la vita degli uomini, come singoli e come società.
A ben vedere, una condizione imprescindibile della funzione mitica di un racconto è la credenza il più possibile diffusa nella sua verità, credenza che, nella maggior parte dei casi, sarà anche oggetto di coercizione delle autorità temporali e spirituali della società. L’uomo infatti, per quanto interiormente rotto e perverso, non può accettare di vivere e soprattutto di morire per una menzogna ed ha un innato desiderio per la verità. Questo semplice principio è sufficiente a spiegare il fenomeno del negazionismo: la ribellione contro il mito fondativo — e dunque contro il fondamento metafisico della società attuale — si esprime ad un livello primitivo come negazione della verità effettuale di quel racconto, affinché non venga più creduto vero e dunque non venga più creduto efficace. I negazionisti replicano oggi quanto i polemisti anticristiani più scadenti del ‘700 e dell’800 facevano coi Vangeli, cioè negare l’esistenza di Gesù. Dall’altro lato l’autorità, anche qualora fosse estremamente permissiva su qualsiasi altro tipo di parola pubblica e privata, non potrà tollerare in nessun modo la negazione della verità del mito e addirittura sarà molto circospetta nel trattare coloro che, pur senza negarne la verità, si produrranno in reinterpretazioni, precisazioni, storicizzazioni di quel mito. Queste strategie sono d’altronde più efficaci: ha fatto di più per l’ateismo delle élite il “Gesù storico” che la scadente propaganda illuministica del Gesù inesistente. Questa è anche la mia strategia qui: non mi interessa assolutamente negare l’esistenza o l’entità dello sterminio degli ebrei, mi interessa negarne il significato che noi gli attribuiamo; non mi interessa nemmeno la libertà di negare l’innegabile, mi interesserebbe tornare a rendere innegabile ciò che è davvero rovinoso negare. Ecco dunque un primo indizio dello statuto fondante dell’Olocausto per la nostra società: che esistano per questo avvenimento storico — e per questo solo — sanzioni comminate dal braccio secolare e censure pronunziate dal braccio spirituale (intellettuali, giornali, aziende) per chi ne neghi la veridicità.
è indizio importante dello statuto mitico del massacro degli ebrei l’insistenza ufficiale sulla retorica della “memoria”. Mito e memoria sono, nell’immaginario europeo, inscindibilmente connessi: nel mondo omerico e greco arcaico, il mito coincide con la parola autorevole del poeta; l’autorità del poeta non è dovuta alla forma ma all’origine di questa sua parola, che è attribuita alla divinità e più precisamente alla Musa. Il termine è una formazione analoga a quella dei participi femminili dalla radice indoeuropea *men-/mon-/mn-. Si tratta di una radice assai produttiva in tutte le lingue indoeuropee: da essa derivano termini che indicano la memoria (μνήμη in greco, ma lo stesso memoria latino e nel nome del corvo di Odino, Muninn), la mente o una qualche facoltà interna all’uomo (mens, sanscrito mantra, ingl. mind), il significato (meaning), ma anche la volontà, l’energia psichica (μένος), addirittura la rabbia (μῆνις), l’amore (tedesco Minne) o la follia (μανία). In pratica la radice connota una facoltà interna all’uomo capace di contenuto, sia esso passato (memoria) o futuro (volontà), indica una interiorità intenzionale se vogliamo.
Dunque la Musa (e si dovrebbe riflettere sul fatto che la parola è chiaramente femminile) è la potenza esterna all’uomo che tende la sua percezione interiore a dei contenuti, che anzi produce quei contenuti alla mente. Se tuttavia quei contenuti si riferiscono al passato, la Musa è già facoltà di memoria, sebbene non propriamente di memoria nel senso del ricordo di un avvenimento cui si è assistito personalmente. Questo legame fra Musa e memoria era noto agli stessi greci, i quali non di rado connettevano genealogicamente le Muse a Mnemosine (Μνημοσύνη), la Memoria.
La memoria è dunque un atto spirituale, un movimento dell’uomo interiore che si reca per così dire in pellegrinaggio in uno scenario passato e che, nella maggior parte dei casi, racconta poi questo viaggio ad altri, in modo che essi possano ripeterlo entro se stessi a loro volta. Tutt’altra esperienza sottende il termine “storia”, in greco ἱστορίη, nell’inflessione ionica del suo scopritore Erodoto. Qui è la radice del vedere e del sapere, la stessa di Veda, video, ἰδέα, εἴδωλον, wise, wizard. La storia si presenta con retorica giuridica come il frutto dell’autopsia, della testimonianza diretta di una persona presente ai fatti, ricuperata — spesso da uno specialista — e messa a disposizione di tutti chiarendone l’attribuzione. L’atteggiamento dello storico e quello del poeta mitografo non potrebbero essere più diversi: presso l’uno, a guisa di giudice giusto, non fit acceptio personae e, per quanto le sue personali preferenze non possano del tutto essere eliminate, se egli compirà il suo lavoro con coscienza e dedizione, esse saranno di continuo tenute a bada in modo da non intrufolarsi nel racconto degli eventi. Tutto al contrario, l’altro racconta gli eventi proprio perché essi sono circonfusi e animati da una intenzione, da un μένος divino, e altrimenti gli argomenti non gli si presenterebbero nemmeno alla mente.
Ora, che la facoltà evocata a parlare dell’Olocausto sia proprio la Memoria, che anzi Olocausto e Memoria si identifichino proprio come la Musa è sinonimo poetico della Poesia, dimostra patentemente il carattere mitico del racconto dell’Olocausto. Ad un livello molto banale, il significato della Memoria è quello di una proibizione di ogni narrazione propriamente storica dell’evento, cioè di una narrazione che avvenga nella neutralità giudiziaria tipica dello storico, prendendo in considerazione tutti i testimoni su un piano di parità, mettendone in discussione le deposizioni secondo raziocinio e buon senso, nello sforzo imperfetto ma sincero di giungere a vedere la verità così come essa è. Non può e non deve esistere una narrazione neutrale o, se vogliamo, indifferente, dell’evento. Ciò implica che, a differenza di ogni altro evento storico, per questo soltanto narratori e guide saranno non gli specialisti e gli storici, e nemmeno i testimoni tout court, ma quei testimoni dotati dalla divinità dell’autorità per ricordare; Memoria significa selezione di un ricordo dai vari ricordi possibili dell’evento e sua elevazione a racconto sacro. Non gli storici, ma gli evangelisti debbono parlare di Olocausto.
Ad un livello più profondo, la caratterizzazione di Memoria dell’evento ne fa soprattutto una esperienza interiore, spirituale. Nessuno può leggere dell’Olocausto “per informarsi”, “per curiosità” come si leggerebbe del massacro dei Daci da parte di Traiano. L’Olocausto non si indaga, si evoca; si tratta a tutti gli effetti di un esercizio spirituale al modo di quelli descritti da Hadot. Differenza non piccola è che gli esercizi spirituali degli Stoici potevano basarsi solo sul potere suggestivo della parola e quelli dei Gesuiti potevano al limite aiutarsi con l’arte figurativa e la musica del Seicento. L’esercizio spirituale odierno ha dalla sua la potenza della televisione, del cinema, di ogni tipo di spezia e di droga dei sensi, sicché il suo potere suggestivo — se dotato di questi costosi e potenti mezzi — è colossale in confronto a quello di quei pur impressionanti spettacoli antichi. Invero, Spielberg gode di maggior autorità riguardo l’Olocausto che non lo storico dell’Olocausto o il vecchio bavarese che abitava nel villaggio a fianco al campo, proprio perché il poeta — non lo studioso, non il testimone — è il vero narratore del mito.
Con questa categoria bisogna anche spiegare l’uso peculiare, assimilabile alla pratica religiosa del pellegrinaggio, di visitare i campi di concentramento. Ogni altro monumento e resto di epoche storiche considerate passate viene visitato unicamente per il suo valore estetico o al limite per un imprecisato “valore culturale” che però non coinvolge veramente il turista al di là del piano intellettuale. Persino i monumenti esplicitamente pensati in tempi recenti per sortire quell’effetto, prendiamo per esempio l’Altare della Patria in Italia, vengono visitati ormai (se vengono visitati) per il loro impatto scenico più che per commemorare alcunché. Al contrario, il viaggio ad Auschwitz presuppone una preparazione psicologica, con film e lettura di materiale “edificante” relativo all’avvenimento sacro; la visita stessa deve avvenire in una atmosfera religiosa, di silenzio e di meditazione, come dimostra il pubblico scandalo suscitato dall’occasionale turista frammisto ai pellegrini. Si va ad Auschwitz come si evoca la Memoria non per informarsi, ma per ottenerne un beneficio spirituale, che rimane per lo più vago e indeterminato o che viene espresso come la formazione di una coscienza immune dalla ripetizione di quegli atti, come se la autoscopia dei luoghi del martirio facesse da vaccino contro l’insania dei martirizzatori. Inoltre, il pellegrinaggio materializza e inscena l’esercizio spirituale della Memoria: come l’uso del pellegrinaggio in Terra Santa diede origine all’esercizio spirituale della Via Crucis, così l’esercizio spirituale della Memoria si è dovuto concretizzare in un pellegrinaggio ad Auschwitz. Pellegrinaggio e esercizio spirituale si rafforzano e si spiegano vicendevolmente. Infine, ogni pellegrinaggio è sempre anche una forma di morte, dunque di penitenza ma anche di passaggio. Il mussulmano che si rechi alla Mecca può fregiarsi per il resto della vita del nome di Hajji ed è cosa nota che mutare nome è simbolo di un mutamento di vita profondo. In questo senso si spiega l’uso invalso di infliggere ai ragazzini delle scuole europee il viaggio al campo di concentramento, specialmente negli ultimi anni di scuola superiore: il passaggio alla maggiore età è solennizzato da questa “morte a se stessi” e rinascita a membro responsabile e adulto della società. La funzione penitenziale sospetto sia molto chiara alla maggioranza degli scolari costretti a stare muti e sentirsi in colpa per mezza giornata, mentre vengono scarrozzati fra le baracche e catechizzati dai Reiseführer. L’europeo deve perdere la sua innocenza, guardare nel viso dell’abisso o almeno sentirsi un po’ in colpa mentre si annoia, se vuole meritarsi di vivere, perché molti sono i peccati dei padri che deve espiare. E Auschwitz serve proprio a questo.
Da ultimo, bisogna dire che la Memoria non è facoltà propriamente umana, ma contatto con una forza divina, cioè una forza che sfugge il controllo dell’uomo. Cos’altro sarebbe la Storia se non la disciplina, la umanizzazione e la riduzione sotto controllo della Memoria? L’indagine dello storico comincia spesso con la Memoria ma non vi si ferma; egli confronta, corregge, verifica, in fondo desacralizza, e riduce la Memoria da forza che irrompe, densa di significato, nella vita umana a insieme ordinato, coerente, sottoposto alla sua ragione, di fatti e cause ed effetti. La Memoria invece appare con un μένος interno, cioè con una sua volontà o significato, che non le può essere tolto, perché chi ne fa esperienza riceve questa Memoria come qualcosa di esterno a sé e autorevole.
Quella della Memoria è, per tutte queste ragioni, una esperienza religiosa, il cui contenuto evenemenziale, esposto in forma narrativa non può che essere chiamato Mito.
Altro indizio importante è la parola “Olocausto” che, come detto, presuppone un surplus ideologico; questo surplus ideologico è precisamente la mitologizzazione dell’avvenimento storico. Qualificando lo sterminio come sacrificio se ne dà una interpretazione rituale. Ma il rito è sempre legato ad un mito: il rito è messa in atto del racconto mitico, il mito è esegesi del rito, non però in questa maniera analitica come due equivalenze separate, ma come se mito e rito fossero tutt’uno. Ancora una volta, il Rito perfetto ed il Mito fondamentale ci aiutano a capire in che senso: la Messa e la Passione di Cristo non sono l’una la recita e l’altra il copione, né una l’oggetto e l’altra l’etichetta, bensì sono una e la medesima cosa in quanto la Messa è la Passione che realmente si svolge sull’altare. In questo senso, l’avvenimento storico diventando mito supera la storia in quanto questa è passato, quello presente nel rito: possiamo dire che il rito trasfigura, rendendolo presente, la storia in mito.
Vi sono anche prove dirette dello statuto fondativo del mito olocaustico rispetto alla nostra società. Le costituzioni dei Paesi perdenti della Seconda Guerra Mondiale sono in larga misura disegnate, più che in accordo con principi di filosofia politica sviluppati nella modernità e nella prima contemporaneità, come contrappunto negativo a quell’esperienza. Si prenda per esempio la Repubblica Italiana, che per ammissione istituzionale si concepisce come il risultato della Resistenza e che, vero articolo-cuore della sua Costituzione, pur reputandosi liberale vieta l’esistenza di uno e un solo partito, quello responsabile di aver collaborato con il Reich all’Olocausto.
Si potrebbe obiettare che il fascismo italiano si sia macchiato di crimini ben prima della collaborazione col Reich, e questa era la posizione fino a relativamente poco tempo fa nota a tutti e difesa particolarmente dalla pars socialista del Paese, che in maniera del tutto comprensibile aveva un conto aperto con l’esperienza politica nata per fermare la Marea Rossa e responsabile dell’assassinio Matteotti. D’altra parte, il maldestro tentativo di dannare ancora di più quell’esperienza agli occhi di chi tutto sommato non vedeva nulla di male in un argine contro la Rivoluzione, attraverso il costrutto del “nazi-fascismo”, la sovrapposizione cioè dei due alleati di guerra in un’unica esperienza politica sin dalle loro origini, come si trattasse di un unico fenomeno e minimizzando il più possibile le differenze fra i due, questo tentativo dico ha finito per elidere nella coscienza comune il resto dei crimini e della storia del fascismo, arrivando ad una visione davvero mitica — cioè falsa — di quella realtà: un unico Male metafisico incarnatosi nel Fascismo italiano, in Hitler, nel Giappone imperiale e in ogni altra esperienza politica si abbia interesse a condannare senza appello e corrispondente per essenza ad Auschwitz. Si arriva a parossismi, dove non solo le complesse esperienze che hanno annoverato davvero Auschwitz fra le conseguenze vengono ad Auschwitz ridotte, ma dove qualsiasi “male” politico viene ricondotto ad un aspetto parzialissimo di quelle esperienze: non il regime in toto, o la guerra, ma il campo, e il campo di sterminio, e il campo di sterminio degli ebrei.
Questa mitologizzazione ha evidenti vantaggi per le sinistre ma anche conseguenze ridicole. Si può sempre scagionare Stalin o Pol Pot perché, se il Male metafisico è Auschwitz, tutto sommato la Kolyma è un campo di lavoro non di sterminio e uccideva tutti non solo gli ebrei. Dall’altro lato, ogni volta che un discorso politico vuole nominare il Male, deve ricorrere ad Auschwitz, sicché gli abortisti e i pro-vita, così come gli immigrazionisti o i no-vax, tutti ugualmente evocano e sventolano il fantasma di Auschwitz nel tentativo di dannare senza appello l’avversario. Coloro che, soprattutto da sinistra, si scandalizzano dei no-vax che parlano di Draghi come di Hitler o dei pro-vita che non riescono a trovare analogia migliore per le decine di migliaia di aborti commessi ogni anno nel nostro Paese che Auschwitz, sappiano che questa è la nemesi della loro becera pedagogia politica, che ci ha insegnato che nella storia un solo Male ipostatico esiste ed è Auschwitz. Ma sui danni della reductio ad Hitlerum torneremo più sotto, basti per ora constatare il valore mitico di Auschwitz per ogni tipo di formazione ed istanza politica che voglia dannare senza appello e metafisicamente i suoi avversari.
Il valore mitico di Auschwitz si constata anche fuori dai paesi perdenti della guerra, persino negli Alleati. Presso di loro, Auschwitz ha la funzione positiva di legittimare l’ordine politico attuale, che vede soprattutto gli Anglosassoni come potenza egemone mondiale. In maniera molto ovvia, gli angloamericani si ritengono coloro che hanno fermato il Male, i “buoni” del nostro mito, dunque autorizzati a far da guida al mondo. Questa percezione tuttavia si è nel tempo appannata, nella misura in cui forze sovversive interne a quei paesi a partire dagli anni ‘60 cercavano di esportare la rieducazione dei tedeschi in America e Inghilterra. Ciò è avvenuto probabilmente anche manipolando situazioni di guerra concreta (la Corea, il Vietnam, l’Algeria) in modo tale da presentarle in contrasto con la Guerra Santa contro i nazisti, pretendendo dalle potenze alleate uno standard di moralità internazionale che, a ben vedere, non avevano dimostrato nemmeno in quell’occasione ma che si erano a posteriori attribuiti allo scopo di legittimarsi.
Molto più che nell’autorevolezza delle nazioni alleate, gioca ancora un ruolo il mito di Auschwitz come legittimazione delle strutture internazionali entro cui quelle nazioni sono più potenti e delle strutture interne proprie di quelle nazioni come dei loro satelliti, non però — si diceva — in senso positivo bensì negativo. Un insieme di posizioni di politica istituzionale, dal grado più basso a quello più alto dell’organizzazione internazionale (federalismo, costituzionalismo, liberalismo, suffragio universale, Unione Europea e ONU, con relativi trattati di riconoscimento dei diritti umani) non sono più giustificati da argomenti razionali o attribuiti ai modelli e ai ragionamenti dei loro autentici ideatori, uomini come lo Spinoza del Tractatus, John Locke, il Kant del Per la Pace Perpetua, Rousseau, John Stuart Mills etcetera. I miti illuministici e moderni del progresso e dell’uscita dall’evo buio, come dell’uomo prometeico e della Rivoluzione non hanno più un valore fondante delle nostre forme politiche, anche di quelle — come nell’anglosfera — che possono vantare una filiazione diretta e precedente Auschwitz da queste esperienze più antiche. Al contrario, tutto il sistema istituzionale sopra delineato è giustificato soltanto dal “mai più di nuovo” di Auschwitz. Ciò ha la conseguenza molto pratica di bollare qualsiasi dubbio sulla correttezza di questa architettura come neonazismo, inquietante prodromo dello sterminio cruento, al di là del merito del dubbio e anche qualora nascesse da un impianto di pensiero conservatore o reazionario che precede Auschwitz.
La religio holocaustica come religione contro la religione.
Nel primo paragrafo ho dimostrato la natura ideologica della definizione di “Olocausto”. Nel secondo paragrafo ho dimostrato che la natura ideologica del termine è solo un aspetto del fenomeno-Olocausto che lo contrassegna come una vera e propria religio holocaustica, con similitudini verso altre religioni. In questo terzo paragrafo voglio dimostrare, a partire dalla natura specifica di questa religione, il suo messaggio fondamentalmente anti-religioso; alla fine dovrebbe essere chiaro che i cristiani non possono coltivare il mito dell’Olocausto rimanendo cristiani.
Il primo elemento antireligioso del mito olocaustico è da identificarsi nell’assenza di un rito specifico. Abbiamo detto che il mito diviene tale per mezzo del rito, che lo fa tornare alla vita nel tempo presente, o meglio rompe il tempo presente e lo colloca sul piano del tempo mitico. Il rito deve essere un insieme di azioni materiali che dimostri, dal punto di vista di chi lo compie, un legame simbolico con la narrazione mitica. Il legame può essere una ovvia imitazione, come nel caso dello σπαραγμός imitante la morte mitica di Zagreo, ma può anche trovarsi in un più complicato intreccio di legami simbolici con l’avvenimento mitico, come nel caso dell’Eucaristia che è al contempo Memoria (e dunque recitazione e messa in scena nel senso più sacro e pregnante di questi termini) della Cena ma anche vero sacrificio e Presenza della Croce. è il rito ciò che più propriamente noi identifichiamo con la religione, perché una pura e semplice narrazione può essere utilizzata a fini di intrattenimento e non fonda alcuna comunità religiosa presa a se stessa. Solo il rito, in quanto atto visibile (materiale) e sacri-ficio cioè sacralizzazione di un tempo e di uno spazio precedentemente profani, è capace di radunare una comunità e di metterla in contatto con entità e forze spirituali, si tratti di Dio nel caso dei riti della Vera Religione, o di demoni nel caso delle religioni pagane.
Il mito dell’Olocausto fonda certo una Memoria e delle tecniche di commemorazione e meditazione, ma non propriamente un rituale materiale riconosciuto. D’altronde, sarebbe assurdo “rievocare”, cioè agire nuovamente anche solo per via simbolica, il massacro degli ebrei. Al contrario, in maniera antifrastica rispetto alla funzione della Memoria mitica, la Memoria olocaustica è evocata per troncare la possibilità della ripetizione; si ricorda per non ripetere, il che, se pronunziato fuori dalla nostra religio holocaustica e senza ulteriori specificazioni, è una patente assurdità. Il fine negativo della memoria mitica dell’Olocausto, cioè questo richiamare perché non si ripeta, fa di tale memoria un mito anti-mitico, un assurdo innaturale che mina la struttura stessa della memoria mitica nella nostra civiltà. La continuità fra il tempo del mito, cioè il nostro passato, e noi è recisa proprio dal fatto di mitizzare quel passato, cosicché il rapporto dell’europeo contemporaneo con il suo passato diventa un’area travagliata e contraddittoria della sua anima, perché egli è al contempo tenuto dalla sua religione a volersi dissociare da quel mito fondativo e però a riconoscersene implicato, anche solo in via potenziale (“perché non si ripeta” implica che possa ripetersi) o come discendente culturale dei colpevoli, e a riconoscere altresì che tutto ciò che è Bene oggi nasce dal sacrificio delle vittime del Male di ieri. Non solo il mito olocaustico non prevede l’intervento di nessuna divinità, ma problematizzando il rapporto fra presente e mito, esso predispone l’uomo a chiudersi al rapporto con la divinità, che non può essere legittimamente istituito dal rito. In questo senso vanno anche lette tutte le riflessioni dei teologi contemporanei su Dio dopo Auschwitz. Esse non sono altro che le doglie dell’organismo religioso che, infettato dal parassita del mito olocaustico, si prepara a partorire l’ateismo. In questo modo, fra l’altro, viene estesa al mondo cristiano (cioè europeo) la condizione religiosa propria del Giudaismo: questo vive nella Memoria di una grande tragedia (la distruzione del Secondo Tempio), la quale, per ragioni storiche, viene a sostituire la forma propria e originaria di quella religione, cioè il sacrificio. Poiché il sacrificio non è più praticabile, la religione continua come sola memoria e rapporto con la parola e la narrazione. In tal modo però si perde il rapporto diretto, pubblico, visibile con la divinità e, in alcuni casi estremi, la Memoria consente addirittura l’elisione della divinità dal suo orizzonte e dunque la morte della religione qua religione. Una delle funzioni fondamentali del mito di Auschwitz è dunque di inculcarci che noi non abbiamo più diritto ad una divinità.
Uno degli aspetti fondamentali del rito, oltre al rapporto con la divinità e con il passato mitico della comunità (la Memoria), è quello comunicativo, cioè relativo alla comunione dei partecipanti, reciproco, con la vittima e con la divinità. Il sacrificio, che nella nostra civiltà è il re e l’archetipo di ogni rito, prevede la consumazione rituale delle carni della vittima da parte dei partecipanti. Il pasto rituale, cui partecipa la divinità, suggella il legame comunitario e, con sfumature di interpretazione in diversi contesti religiosi, accomuna i sacrificanti alla vittima sacrificale.
Questo complesso di temi è particolarmente evidente nella Comunione cattolica: in essa, la Vittima sacrificale si identifica con la comunità che la consuma (Cristo come Capo della Chiesa e la Chiesa come Corpo di Cristo, cioè identificata con l’oggetto stesso del rito sacrificale). Ma la Vittima è anche la Divinità che ha ricevuto il sacrificio, “Egli stesso sacrifica se stesso a se stesso” (sjalfur sjalfum mér) per utilizzare una felice espressione dello Havamal che, riferita ad Odino, può tranquillamente essere assunta come praeparatio evangelica. Nella Eucaristia, Dio, Cristo e Chiesa, cioè divinità, vittima e comunità, sono Uno. D’altra parte, l’Eucaristia ha anche funzione memoriale, ci fa rivivere la morte redentrice di Cristo. Il copione di quell’evento mitico prevede che ogni segmento dell’umanità dell’epoca — a partire proprio dagli amici e discepoli di Gesù, poi il Suo Popolo, e poi tutti i popoli pagani, rappresentati dall’Impero Romano — partecipi all’uccisione della Vittima, tradendo, tramando o uccidendo. Sotto questo aspetto, il mito cristiano e quello olocaustico si assomigliano, perché entrambi implicano la comunità di riferimento, e in realtà il mondo intero al di fuori della vittima, nell’atto violento e colpevole in oggetto. Vi è però un secondo aspetto nel mito cristiano che è assente nel mito olocaustico, e cioè che quel sacrificio non avviene invano ed anzi è offerto e misteriosamente salva proprio coloro che, avvenendo come avviene, dovrebbe definitivamente condannare. Esso è a un tempo il punto più basso dell’umanità, che tutta partecipa all’uccisione del suo Creatore, ed il punto più alto dell’umanità che in quella morte è vivificata.
Il mito olocaustico distorce la Comunione cristiana sotto due punti di vista essenziali dunque: primo, esso elide l’aspetto redentivo del sacrificio, il che — come già detto — inserisce un dissidio insanabile fra passato mitico e presente colpevolizzato e disperato; secondo, il suo copione non prevede una partecipazione universale nella vittima, non ci sono piaghe da cui essere salvati, ferite in cui trovare rifugio o sangue del nostro riscatto, trattandosi di un Olocausto, una combustione totale che non lascia resti da condividere nella comunità. Per mezzo del fuoco vittime e carnefici sono divisi senza rimedio; se il sacrificio di Cristo abbatteva il muro di separazione, l’Olocausto istituisce di nuovo un muro, un muro del pianto se vogliamo, che separa nettamente e per sempre le vittime dai carnefici. La Memoria non unisce più una comunità intorno al suo passato, ma divide fra una comunità di salvati (le vittime) e di dannati (i carnefici).
Questa struttura del mito olocaustico ha posto nel tempo una serie di problemi teologico-politici. Individuando come forma fondamentale e dunque fondamentalistica del mito il ruolo di vittima degli ebrei e quello di carnefici degli europei continentali, rappresentati dalla nazione-cuore d’Europa, la Mitte, cioè la Germania, l’emergere di nuovi movimenti politici ha teso ad allargare l’una o l’altra categoria secondo i fini di volta in volta perseguiti, non senza pezze d’appoggio nella realtà storica. Fra i carnefici si sono voluti annoverare, per esempio, la civiltà occidentale tutta — anglosassoni compresi — in funzione anticolonialista e antiamericana, il gran muftì di Gerusalemme e dunque gli arabi in funzione sionista e sciovinista europea, si sono citate le rat-lines vaticane per accusare la Chiesa o ancora si sono associati all’Olocausto nazista le purghe antiebraiche di Stalin in funzione “antitotalitaria”. Hanno tentato di fregiarsi dell’appannagio ebraico di vittime sacre di volta in volta i comunisti — gli oppositori politici per i quali in origine i campi erano stati pensati —, i sodomiti, i cattolici stessi, i vari nemici dell’eugenetica, dell’aborto e promotori di misure a favore dei disabili, da ultimo in questi anni i renitenti al vaccino. Tutti questi allargamenti del canone sacro hanno incontrato l’opposizione non solo dei nemici politici contro i quali venivano operati, come è naturale per ogni manovra politica, ma anche delle vestali del mito che, di volta in volta, hanno dovuto valutare e calcolare se quella precisa verità storica che veniva portata a galla era meritevole di essere accettata nella narrazione mitica o se l’avrebbe sporcata. è da notare che, sul lungo periodo, l’allargamento della classe dei carnefici ha avuto assai più successo che non la comunione dell’agognato status di vittima, il quale comunque è stato concesso sempre in direzione “progressista” e mai viceversa: che sodomiti e comunisti fossero vittime è ormai parte del canone (sebbene non percepita senza problemi da ebrei e sionisti), mentre che dissidenti cattolici o “novax” possano esserlo è considerato blasfemo.
L’unione di due meccanismi già descritti, ovverosia l’allargamento della classe dei carnefici e la dissociazione con il passato, viene spesso portata al parossismo dai sacerdoti della religio holocaustica, implicando nell’accusa insita nel mito fondativo l’intera storia europea da Cristo a Hitler (la blasfemia dell’accostamento è nel ragionamento dei sacerdoti, non in me). Si tratta di un’interessante variazione della procedura retorica detta reductio ad hitlerum, la quale normalmente è utilizzata a partire da un avvenimento presente per ricondurlo al peccato originale, ma in questo caso si risolve in una interpretazione teleologica della storia per cui ogni avvenimento trapassato sarebbe stato ordinato o complice nell’avvenire del passato in oggetto. Questo secondo tipo di reductio è naturalmente tutto funzionale al primo, ma andiamo con ordine.
All’indomani di Auschwitz, filosofi e storici gareggiarono nell’individuare le cause lontane e vicine del massacro, col risultato di aver creato una lettura in malam partem della storia europea dove ogni grande sviluppo del pensiero o significativo personaggio pone le basi per il momento tragico e decisivo di Auschwitz. Nell’accusa sono stati trascinati in ordine cronologico inverso la Russia, Nietzsche, Darwin, il colonialismo e le esplorazioni, la Germania, Hegel, Kant, il nazionalismo, la Rivoluzione Francese, la rivoluzione industriale, la nascita dello stato moderno, Lutero, la scoperta dell’America, la Santa Inquisizione, le Crociate, la Chiesa di Roma, i Padri della Chiesa, l’imperatore Costantino, la martirologia cristiana, il Beato Apostolo e probabilmente anche il Salvatore, ma di certo Nerone, Tiberio ed Augusto, e persino Omero. In questa lettura della storia europea, l’unica costante nel continuo cambiamento di opinione e forme di vita, rimane l’antisemitismo, ed il mito prometeico ed europeo della modernità, quello cioè dell’uomo che per mezzo della ragione sottomette le forze della natura, diviene l’oscura discesa verso l’inferno paraindustriale di Auschwitz. I due principali colpevoli di questo avvelenamento della storia europea sono stati Hannah Arendt con il suo The Origins of Totalitarianism e Theodore Adorno con la Dialektik der Aufklärung e, soprattutto, con The Authoritarian Personality.
Il risultato di quest’atto di accusa complessivo è che l’europeo, già sottoposto al senso di colpa ineluttabile del suo passato recente dal mito olocaustico, è anche costretto a rinunziare alla possibile redenzione di un passato più remoto, perché anche quello sarebbe contaminato dal peccato originale di Auschwitz. Auschwitz diviene la dimensione unica e totalizzante del passato europeo in modo da disgregare qualsiasi appiglio ad una identità collettiva: il tedesco non ha più diritto di riconoscersi come tale, perché l’orgoglio per Goethe assume risvolti inquietanti; l’europeo non può più riconoscersi in una storia ed una cultura gloriosa, dai cavalieri agli esploratori, perché cavalieri ed esploratori erano anche antisemiti e razzisti; il luterano deve vergognarsi di Lutero e il kantiano di Kant. L’estensione di queste accuse al Nord America è invece una materia più controversa; molto più importanti laggiù sono la questione dei neri e degli indigeni, e tuttavia esse si legano a quella dell’antisemitismo europeo abbastanza da garantire una certa paradossale comunità di destini fra le due sponde dell’Atlantico. Il mito olocaustico fa perciò strame di un’identità europea e delle identità nazionali d’Europa, sostituendole con la Memoria di un peccato da non ripetersi. Intorno a questo scopo — e ciò è ancora parte del mito — sarebbero nate tutte le istituzioni dell’Europa contemporanea, le quali pure ebbero una loro “preistoria” nel rimosso pre-olocaustico, ma questa preistoria è ormai dimenticata o rifunzionalizzata dal mito. E così democrazia, stato di diritto, liberalismo e libero mercato, strutture internazionali come ONU e UE, trovano la loro giustificazione nel mito olocaustico e non nella lunga storia europea che lo precede e che, spesso, contraddice questo mito (si pensi alle radici anche naziste e fasciste dell’idea di una Europa unita sotto un unico potere politico). Sicché l’idea di Europa viene sostituita da quella di “Occidente”, l’entità che, ammaestrata (o meglio castrata) dai suoi peccati passati, può ora ammaestrare il mondo affinché Auschwitz “non si ripeta”.
L’effetto disgregante del mito olocaustico va però ancora più a fondo. Si è notato sopra che gli ampliamenti nel novero delle vittime sono sempre stati accettati esclusivamente se funzionali ad una politica progressista. Ciò perché il mito olocaustico ha, fra i vari effetti, l’impossibilità di un movimento politico “verso destra” della società. Entra qui in gioco un meccanismo consacrato nella teologia ufficiale dal già citato libro di Adorno The Authoritarian Personality, meccanismo che porta ad effetto la reductio ad hitlerum del passato trasformandola in formidabile arma retorica nel presente. The Authoritarian Personality (di cui l’Ur-Fascismo di Eco è uno sbiadito adattamento italofono) è riuscito a proiettare Hitler dall’ambito della storia a quello degli archetipi mitici: legandone il successo politico a caratteristiche psicologiche del popolo tedesco, ha permesso l’estensione dell’accusa di nazismo a qualsiasi non diciamo politica ma anche solo atteggiamento conservatore o reazionario. Il nazismo non è più un fenomeno storico ma una pulsione onnipresente dell’animo umano, a cui resistere (Resistenza sempre!) in ogni momento storico. Il nazismo e la colpa che esso si porta dietro nella coscienza comune diviene così una categoria interpretativa di ogni realtà, presente passata e futura, impedendo a priori un’azione politica conservatrice o reazionaria di qualche importanza. Si potranno avere al massimo momenti di tregua dalla disgregazione progressista o fantocci “di destra” chiamati ad interpretare per un mandato il ruolo del cattivo affinché meglio brillino gli eroi del progressismo. Progressismo che, peraltro, in questo contesto non è che una battaglia di conservazione e resistenza di istituti pensati più come argini al diluvio onnipresente che come bonifiche della palude a favore della terra buona. Anche l’espansione dei “diritti civili”, unica espansione possibile al progressismo olocaustico, non è pensata come l’avanguardia e l’esplorazione di nuovi spazi, bensì come una battaglia di retroguardia, il semplice raddrizzare torti millenari e un atto dovuto.
La principale accusata di questa reductio ad hitlerum del passato europeo è, naturalmente, la Chiesa Cattolica. Nonostante i reali errori compiuti dal mondo cattolico in quel periodo storico siano tutto sommato marginali, le accuse, sviluppandosi oltre i confini angusti del periodo storico per investire l’intera vicenda europea, hanno potuto indicare nella Chiesa la principale colpevole di quanto accaduto ad Auschwitz e ciò soprattutto perché si sarebbe voluto individuare nel cristianesimo un nucleo antisemita essenziale e inseparabile dalla religione stessa. L’antisemitismo della Chiesa sarebbe poi divenuto antisemitismo dell’Europa e, anche nel più anticlericale degli europei, l’antisemitismo sarebbe stato un retaggio del suo ambiente cristiano, mentre l’eventuale filosemitismo del cattolico convinto andrebbe letto come scostamento dai dettami della religione. Ciò si aggiunge ai meccanismi già visti con cui la religio holocaustica si contrappone alla Vera Religione e alla religione in generale, favorendo la disgregazione della comunità religiosa, dei suoi riti, del rapporto con la divinità. D’altronde, i promotori di quella religio holocaustica sono professi nemici della Chiesa, difficile dunque aspettarsi da loro non diciamo simpatia ma almeno equanimità.
Ad ogni modo, la tendenza “progressista” della religio holocaustica, così come la sua difesa di molti istituti vigenti in Occidente che contraddicono frontalmente la dottrina cattolica e questa dissociazione del credente olocaustico con il suo passato e la sua comunità di riferimento, e in questo caso specifico con la Chiesa, della quale l’Olocausto ci chiama a vergognarci mentre dovrebbe essere l’unico motivo di orgoglio della nostra esistenza, la medicalizzazione della mentalità religiosa operata da Adorno, e a questi motivi va aggiunto il carattere intrinsicamente anti-religioso, anti-rituale e anti-universalistico del mito olocaustico, tutti questi motivi insomma rendono impossibile la convivenza o almeno la co-credenza fra la religio holocaustica e il Cattolicesimo.