Nella storia d’Europa sono esistiti essenzialmente due tipi di scuola: la scuola di Isocrate e la scuola di Platone.
La definizione ed il fine della scuola.
Prima di Isocrate e Platone, beninteso, esisteva la scuola, anzi ne esistevano due tipi, quella dei poeti e quella dei sofisti. Isocrate e Platone sono gli eredi della scuola dei sofisti, in maniera diversa, perché questa per prima si propose consciamente come scuola, mentre i poeti avevano una funzione pedagogica molto più ampia e generica, della quale non è arduo trovare paralleli in quasi tutte le civiltà del mondo e in ispecie nei loro stadi più primitivi. Parliamo invece di scuola come di un periodo definito della vita umana, di norma ma non necessariamente nell’età giovanile, entro il quale la persona — l’alunno — si colloca in una posizione subordinata e di coscienza solo parziale rispetto a colui che insegna, con il fine, talché il periodo è de-finito dunque deve avere per lo meno in teoria una fine ed un fine, di ottenere un qualche bene spirituale ovvero intellettuale.
Si potrebbe addirittura pensare che la differenza specifica della scuola rispetto ad altre forme di trasmissione di sapere è proprio questa sua de-finizione. Il ragazzo ateniese non finiva di ascoltare i poeti dopo la docimasia, bensì i poeti accompagnavano l’intera vita della πόλις ad ogni età. Con ciò rispondevano a bisogni umani più ampli che non quello specifico della scuola, come la propaganda, il condizionamento sociale e l’intrattenimento. La definizione di un periodo di tempo implica invece uno scopo specifico e il riconoscimento di un bisogno specifico, vale a dire quello dell’essere umano non ancora maturo.
Ora, data questa definizione, è chiaro che lo scopo della scuola, da un punto di vista formale, non può che essere l’acquisizione da parte dell’alunno di quei beni spirituali senza i quali non può essere considerato un umano maturo. Nei fatti poi, la maturità è nella massima parte dei casi requisito per una partecipazione propria e regolare alla comunità di appartenenza. Per questo si dice che “la scuola forma il cittadino”. Si obietterà che non sempre, anzi quasi mai, in Europa la scuola fu aperta a tutti i membri della comunità, il che è vero in quanto la società prevedeva forme di partecipazione sostanzialmente diverse per diverse persone alla vita della comunità, talché l’essere un “essere umano maturo” non esauriva le condizioni e le forme della partecipazione. Vi erano dunque diverse “scuole” per diverse forme di partecipazione e per molte non vi era scuola proprio perché, se è vero che il bisogno della persona non ancora matura è un dato oggettivo e ineliminabile, tuttavia non è affatto detto che gli si debba corrispondere per forza con la “scuola” come percorso strutturato al fine di ottenere un bene intellettuale. Esistono dunque “scuole” diverse da quella di Platone ed Isocrate nel senso che l’apprendistato in bottega, la vita in famiglia e la messa domenicale possono essere definiti scuole, cioè per andare incontro al medesimo bisogno cui la scuola corrisponde. D’altra parte, le scuole di Platone e di Isocrate sono quelle che più esplicitamente, e sin dalle loro origini, si sono poste come scuole di partecipazione significativa alla vita pubblica, sociale, comunitaria, insomma politica. Nel corso della storia occidentale, esse hanno poi finito per esaurire quasi del tutto il panorama scolastico formalizzato e, anche nelle poche eccezioni non esplicitamente platoniche o isocratee, come la madrasa, la yeshivà, la scuola parrocchiale e il monastero, l’influsso pedagogico delle due scuole “laiche” fu profondo e importante.
Lo scopo della scuola è, in questi termini, dato solo ancora come requisito formale, ma la sostanza, rappresentata dal bene spirituale da conseguirsi, dipende dalla comunità e dal tipo di scuola. Evidentemente, se due tipi di scuola esistono, questi due tipi devono ciascuno essere caratterizzato da un proprio bene spirituale intorno cui l’insegnamento si strutturi. Prima però di provare questa asserzione, cerchiamo di delineare i caratteri di questi due idealtipi di scuola.
La scuola di Platone.
L’educazione platonica è sorretta da un poderoso impianto metafisico razionale, che ne giustifica i contenuti e la struttura. Ora, prescindendo dai contenuti particolari di questa educazione, possiamo delinearne qui la struttura nelle sue motivazioni. Testata d’angolo di questo impianto è la convinzione che esista una Verità cui l’uomo può almeno approssimarsi con le proprie facoltà e in ispecie con la ragione. Lo sforzo dell’uomo di approssimarsi a tale Verità non è altro che la disciplina della filosofia, che sarà dunque al contempo fondamento e corona dell’educazione. Poiché però l’intuizione della Verità è il frutto della speculazione sul mondo, di questa Verità Platone sa che essa si ramifica e si “presenta”, almeno in forma diluita, in ogni cosa del mondo; cosicché ogni cosa è in rapporto a quella Verità, ed anzi esistono dei gradi di maggiore o minore evidenza della Verità nelle cose, che fanno sì che la contemplazione di alcune sia più fruttuosa in questo senso rispetto alla contemplazione di altre, che però magari sono più accessibili al novizio. Così ogni altra disciplina dello scibile può, almeno in teoria, trovare spazio nel curriculum platonico, purché sia sottomessa e vivificata dalla filosofia.
Questa presenza della Verità nel mondo concorre col ruolo passivo della Verità nel pensiero di Platone a dare un modello di educazione centrato sulle cose. La Verità infatti è un νοητός e non un νοερός, per usare i terminus technici, vale a dire un oggetto e non un soggetto di contemplazione. Ciò significa che la filosofia si rivolge ad un oggetto e non ad un soggetto e, imprimendo la sua marca in ogni altra disciplina, privilegerà un’educazione improntata agli oggetti più che ai soggetti.
Come dissimo, scopo della scuola è formare il cittadino politico e la concezione di πόλις platonica è del tutto coerente a questo modello educativo e al suo fondamento metafisico. La sopravvivenza e il benessere della comunità è, in questa prospettiva, non solo dipendente da ma addirittura finalizzato alla aderenza alla Verità. In tanto che la città non tradisce la Verità, essa sopravvive e prospera, ma in quanto se ne allontana, di tanto declina. A motivo di ciò è necessario che chi governi la città sia a conoscenza della Verità cui conformarsi; non esistono in questo — o per lo meno non dovrebbero esistere — conflitti ideologici all’interno della classe dirigente. La Verità è necessariamente coerente a se stessa, dunque la politica si riduce a esecuzione della “soluzione giusta” sulla base della conoscenza presente. Compito della scuola è formare decisori competenti, che siano cioè in possesso delle conoscenze adatte a trovare la “soluzione giusta” in ogni occasione.
In Platone noi crediamo di vedere l’archetipo di quella che oggi, specie nel dibattito italiano, si chiama “cultura scientifica”. Il trionfo di questo pensiero educativo, dopo che esso aveva palesemente perso contro il sistema concorrente, quello isocrateo, durante l’antichità, si ebbe nel Basso Medioevo, con la formalizzazione del sistema delle Sette Arti e delle Facoltà universitarie. Vale la pena descrivere quella mirabile costruzione pedagogica.
Delle Sette Arti, quelle del Trivio sono paragonabili al ciclo scolastico inferiore, poiché il loro scopo è fornire al discepolo gli strumenti linguistici — nel senso più ampio di questo termine — per decifrare il percorso scolastico successivo. Imparando il Trivio si impara ad imparare. La Grammatica, cioè l’insegnamento del latino, permette ogni comunicazione successiva. La Retorica permette la decifrazione e la composizione di testi letterarii o comunque più elaborati della norma. La Logica infine fornisce gli strumenti di grammatica del pensiero per poter seguire ogni insegnamento successivo.
Le arti del Quadrivio dimostrano la natura platonica e scientifica di questa educazione, poiché nell’insegnare le scienze naturali (Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia) si esprime la convinzione che il mondo materiale contenga in sé qualcosa di più accessibile ma più velato di quella Verità ultima che è il fine di tale educazione. Esse funzionano soprattutto come propedeutica per i successivi studi universitarii, almeno per due degli studia possibili.
Completati Trivio e Quadrivio, gli studi universitari potevano culminare nell’acquisizione di una vera competenza politica, oppure diramarsi verso saperi particolari che però non erano considerati disonorevoli come gli altri mestieri. Si tratta delle cosiddette professioni, quelle occupazioni nelle quali non vogliamo semplicemente assumere un mercenario ma ci interessa la probità morale e la coscienziosità di chi esercita; per mezzo delle Sette Arti, il futuro professionista, o meglio professo, ha potuto gustare almeno una punta di virtù politica cioè di Verità, sicché è titolato a lavorare con la propria coscienza, come dice Kantorowicz. Le due professioni paradigmatiche sono il giurista, avvocato o giudice, ed il medico, e le due facoltà corrispondenti sono iura e medicina. E tuttavia si tratta pur sempre di rami laterali, poiché il tronco principale dell’educazione è occupato dalla theologia. Questa sola veramente permette di attingere la Verità e dunque garantisce che coloro che in essa sono stati educati possano prendere le migliori decisioni politiche. (Non è il caso qui di discutere di come la theologia abbia scalzato la filosofia come materia centrale e quale complicato rapporto intercorra fra le due).
è altresì da notare che la theologia, posta su un così alto piedistallo e incaricata di formare l’uomo politico in quanto conoscitore della Verità, rappresenti anche il culmine della speculazione filosofica antica quanto a formalizzazione del proprio linguaggio. Con la scolastica, erede della tradizione del commentario neoplatonico e della filosofia araba, la filosofia e la teologia giungono ad una formalizzazione del proprio linguaggio senza precedenti e successori fino alla logica formale della seconda metà del diciannovesimo secolo, e come quella logica anche il linguaggio scolastico appare del tutto inaccessibile al profano. Si può parlare anche per questo parallelismo di educazione scientifica per quanto riguarda la scuola platonica.
La scuola di Isocrate.
Chiarire la logica dell’educazione isocratea è impresa più ardua che per quella platonica, soprattutto perché, detto francamente, a Isocrate e ai suoi epigoni mancò il rigore e il genio filosofico di Platone. E d’altra parte, la mancanza di una struttura metafisica chiara è una caratteristica tanto importante di questa educazione, quanto la sua presenza in ogni forma di platonismo pedagogico.
Alla base dell’attitudine educativa di Isocrate c’è in effetti uno scetticismo in riferimento ai fondamenti metafisici della realtà e della vita umana. Non si tratta più dello scetticismo corrosivo e ribelle del suo maestro Gorgia e degli altri sofisti, ma piuttosto di un disincanto un po’ generico, da “uomo di mondo”. Questa attitudine rinuncia ad avere una presa salda, noi diremmo scientifica, sulla realtà e sicuramente non commercia con concetti come “Verità”. Non che si sprofondi nell’ateismo o che si neghi risolutamente questo o quello, ché si tratterebbe ancora di prendere sul serio questi concetti. Piuttosto, essi vengono ignorati o utilizzati per fini altri.
In assenza delle cose l’elemento fondamentale di questa educazione sono le parole. Già i sofisti — e Isocrate ne difende la visione — si erano resi conto che la gran parte delle transazioni politiche della πόλις avveniva a mezzo e a causa della parola, una constatazione che, all’uomo moderno, così imbevuto di economia, di tecnologia, di geopolitica, sembra o folle o ingenua. Eppure teniamo presente che in un mondo in cui tutti gli attori politici avevano modo di conoscersi di persona e di parlarsi, anzi non avevano altro modo di parlarsi che conoscendosi di persona, e dove la politica non aveva ambizioni rivoluzionarie, la parola aveva un peso molto più grande che per noi. Pertanto, se il fine dell’educazione è assicurare la partecipazione alla comunità e la comunità è prima di tutto una comunità di discorsi e di parlanti, l’educazione si riduce essenzialmente a insegnare a parlare.
”Parlare di cosa?” obietta il platonico. “Ma di tutto, cioè di niente” potrebbe senza un fremito e forse con un sorrisetto agli angoli della bocca rispondere Isocrate. Questa educazione non è concentrata sugli oggetti, ma sui soggetti; non importa tanto quel che si dice, ma l’effetto che fa su chi ascolta. Nella pratica didattica dunque grande attenzione è data a tutto ciò che è umano e soggettivo, ai caratteri, agli affetti, agli esempi e alle identità culturali, senza giudicare per forza il contenuto veritativo degli insegnamenti. In questo senso è azzeccato il nome che noi le diamo di cultura umanistica: perché niente di umano reputa a sé alieno.
Al centro di una tale educazione, nel luogo che Platone aveva destinato alla filosofia e i medievali alla teologia, si trova chiaramente la retorica, che è a dire la letteratura. Esemplare è, in questo senso, il corso scolastico dell’età imperiale fino all’Alto Medioevo, l’età in cui Isocrate, pur se non sempre col suo nome, ha goduto di un quasi monopolio dell’istituto scolastico nel Mediterraneo e in Europa. Esistevano sostanzialmente due corsi scolastici: il γραμματικός (grammaticus) e il σοφιστής o rhetor. Dal grammatico, il bambino, molto piccolo, apprendeva i rudimenti della scrittura e della lettura, nonché — ovviamente — la grammatica, il più delle volte di lingue (il latino ciceroniano e l’attico di V-IV secolo) non utilizzate nella quotidianità. Questo avveniva soprattutto sui testi dei poeti, Omero e Virgilio. Presso il retore, invece, si imparava a parlare e scrivere secondo il modello degli antichi, il che significava intanto studiare i testi in prosa come modelli di stile, Cicerone e — ironia della sorte — Platone sopra tutti, e poi fare esercizi mirati di composizione e performance.
Si noti però come sono centrali i testi, e la scelta di un canone di testi soprattutto, in questo tipo di educazione. In assenza di un criterio veritativo oggettivo, il canone, una incrostazione storica arbitraria, funge da legislatore di un codice espressivo comune dell’élite politica. Ma poiché l’uomo è solo veramente umano quando partecipa alla vita politica, ecco che queste litterae, questi testi, che permettono la partecipazione alla vita più propriamente umana, che è la vita politica, non possono che dirsi humaniores litterae: “lettere più umane”, come a dire che chi non le frequenta è un po’ meno umano.
Quanto detto sinora potrebbe far pensare ad una educazione fin nel profondo cinica e disincantata, anzi già quasi spregiudicata nel formare abili oratori senza criteri oggettivi nel loro rapporto con la realtà. Non dobbiamo però dimenticare che l’azione di Isocrate nei confronti dei suoi maestri sofistici fu soprattutto quella di un ordinatore e di un moderatore degli istinti animali che quelli avevano liberato. Pertanto l’educazione umanistica presume di trasmettere anche dei valori morali: è l’ideale del vir bonus dicendi peritus.
Questo è in qualche misura già presupposto dall’arte retorica, poiché essa, in quanto arte performativa e persuasiva, richiede da chi la pratica se non altro la finzione di una vita moralmente proba, sì da offrire il più potente degli argomenti per la fede nelle sue parole all’uditorio. Il giovane che si addestrava nell’arte retorica veniva dunque disciplinato in tutti i movimenti del suo corpo, costretto a reprimere ogni moto istintivo dell’emozione, si trattasse della menoma incrinatura del tono di voce o dello scatto istintivo di un muscolo mimico. Ed anche in questo senso si trattava di un’arte più umana delle altre, cioè perché chi l’avesse sufficientemente praticata avrebbe limato dal suo carattere e comportamento ogni traccia dell’animale per lasciar emergere solo l’essere sommamente urbano, cioè sommamente domestico e razionale, che è l’uomo politico, l’uomo più veramente uomo degli altri.
D’altra parte, la morale comunicata da questo tipo di studi non può essere che la morale maggioritaria e più convenzionale dello strato alto della popolazione; la morale del buon gentiluomo di campagna. Ciò in primo luogo perché la sistematizzazione isocratea voleva appunto limare gli spigoli dell’educazione sofistica rassicurando i concittadini ateniesi sull’onestà dei propri insegnamenti. Il formidabile potere della parola non veniva affidato — così ci assicurano Isocrate e Cicerone — a degli atei sovversivi di ogni valore, come Gorgia o Protagora, ma a dei bravi gentiluomini di buona famiglia, coloro che sempre anche prima avevano timonato la nave dello stato. Di poi questa stessa educazione non postulava in se stessa l’esistenza di un qualche criterio oggettivo di verità, così da raccomandare salvo eccezioni un comportamento conformistico, se non altro per convenienza sociale. Terzo, perché questa educazione si propone di per sé di escludere almeno tanto quanto di includere: è di vitale importanza per il suo funzionamento che esista qualcuno che non padroneggi il canone dei classici e il codice linguistico da essi derivato, e allo stesso modo è fondamentale che vi sia qualcuno che non si comporti da bravo gentiluomo, affinché i gentiluomini possano riconoscersi fra di loro. Sicché il codice di comportamento, essendo per l’appunto un codice, non può che essere condiviso da un gruppo sociale e dunque, per definizione, conformistico.
L’educazione umanistica è, in altre parole, sempre finalizzata ad un accesso differenziato alla partecipazione politica e, in extremis, all’umanità stessa — ciò che non troppo lucidamente don Milani rimproverava alla scuola italiana della sua epoca come un’aberrazione, mentre si trattava di un carattere permanente e voluto, anzi del carattere fondamentale, di quell’educazione (su questo di più sotto).
Subito accanto alla retorica, come materia più propria alla sua forma, la scuola d’Isocrate annovera la storia. Il lettore avrà in effetti notato come la storia fosse del tutto assente dal curriculum platonico, almeno per come l’ho descritto più sopra. Ciò è del tutto logico: come può la Verità avere storia? Una cosa o è vera o è falsa e, se pure la nostra conoscenza di essa ovvero la nostra approssimazione al Vero mutasse nel tempo, ciò non significherebbe propriamente una storia, perché il nuovo dovrebbe di necessità far piazza pulita — per così dire — del vecchio, in quanto quello vero questo falso. Dal punto di vista platonico, ciò che ci precede non è che una sequenza di errori. Per l’isocrateo invece si tratta di altre persone, altre situazioni, talvolta simili e talvolta dissimili da quelle che potrebbe trovarsi dinanzi nella vita della comunità, dunque utili.
In questo frangente ci vengono in aiuto due celebri definizioni del più grande isocrateo occidentale, Cicerone: historia magistra vitae e historia opus oratorium maxime. Partiamo dal celebre magistra vitae, una formula condivisa da tutta la storiografia antica, seppur con due interpretazioni divergenti. La storiografia scientifica, senza dubbio il ramo minoritario della storiografia antica, vedeva nella storia con Tucidide uno κτῆμα ἐς ἀεί, vale a dire un tesoro di casistiche dalle quali indurre comportamenti universali ed eterni dell’essere umano in determinate situazioni. Questa conoscenza del Vero era poi da usarsi nella pratica politica, costituendo un insieme di conoscenze puramente strumentali nelle mani dell’uomo politico. Tutt’al contrario la concezione umanistica della storia la vuole un cimelio di morali essempli, ove l’alunno possa cogliere comportamenti lodevoli o biasimati in diverse situazioni da mettere poi in pratica e da richiamare agli interlocutori per vincolarli al codice di comportamento comune del gentiluomo. Questo è uno dei motivi della interpretazione moralistica della storia nell’antichità e fino al Rinascimento.
Con il secondo postulato ciceroniano, opus oratorium maxime, Tucidide e la storiografia scientifica certo non concorderebbero. Qui giuocano un ruolo fondamentale due attività a noi già note che gli autori antichi usarono per concettualizzare il ruolo dello storico. Quando Cicerone utilizza la parola oratorium infatti egli non si riferisce semplicemente all’arte retorica, ma alla sua applicazione pratica nella vita della città ed in particolare nell’ambito giudiziario. Lo storiografo sarebbe, da questo punto di vista, un avvocato od un giudice, impegnato a istruire e condurre un processo ai personaggi; si cerca com’è ovvio di appurare i fatti ma, nello stile proprio dello ius antico, non solo i fatti pesano sul giudizio, bensì anche i caratteri dei protagonisti e le loro intenzioni per come espresse in discorsi persuasivi. La scrittura storica diviene dunque occasione di esercitare le qualità proprie del buon avvocato: certo la ricerca d’indizi e testimonianze per ricostruire i fatti, ma anche la creazione tutta letteraria del carattere dell’imputato e della vittima e l’escogitare prove persuasive per difendere la propria visione. Ciò si accorda bene con la disposizione scettica di questo tipo di educazione, poiché lecitamente diversi avvocati potranno prendere le parti di diversi personaggi storici, sulla base di interessi politici contingenti. Questo ruolo della storia è del resto dimostrato dalla pratica didattica stessa della scuola del retore che, per mezzo dei προγυμνάσματα, esercizi di composizione quali la prosopopea e la parafrasi, portava gli allievi ad esercitarsi su esempi e situazioni storiche. Al contrario, nel pensiero di Tucidide, lo storico si concepisce in analogia col medico, il quale è in rapporto ad una realtà materiale incontrovertibile e naturale, sempre uguale nelle sue reazioni ai medesimi stimoli. Cruciale diviene l’analisi del corpo sociale e degli stimoli che riceve, in modo da poter elaborare cure o “diete” che prevengano o guariscano il morbo. D’altronde la naturalizzazione dei rapporti sociali tende talvolta a far sparire la valutazione morale degli stessi, in favore di un atteggiamento sine ira et studio. In ogni caso, trovo interessante come la storiografia e l’uomo politico, in ciascuno di questi sistemi educativi, cerchi di definirsi per contrasto od analogia con una delle due professioni liberali per eccellenza, il medico e l’avvocato, le quali, pur nel variare delle istituzioni didattiche, sempre rimangono nella loro “lateralità” ma al contempo centralità paradigmatica rispetto alla politica.
L’educazione moderna.
Come anticipato sopra, l’epoca imperiale romana e l’Alto Medioevo furono dominati dall’educazione umanistica di Isocrate, mentre, con l’arrivo di Aristotele in Europa nel Basso Medioevo, si formò un sistema educativo prevalentemente scientifico e di marca platonica (Aristotele non si differenzia da Platone e anzi lo continua in questo senso). La modernità inizia ed è tutta animata da un moto di protesta verso quel sistema, lo scolasticismo; in questo cattolici e protestanti non si differenzieranno quasi per nulla fino al Concilio di Trento e per molti aspetti anche dopo.
La rivolta antiscolastica dell’Umanesimo marcia dunque sotto lo stendardo di Isocrate e la libertà di insegnamento, la laicità, di cui si fa fregio e vanto non è altro che il tiepido scetticismo di chi crede per convenienza e già non crede più, ed è al contempo una menzogna poiché il sistema scientifico della scolastica non escludeva dal novero dell’umanità coloro che non avessero studiato, come invece facevano le humaniores litterae: forse qui sta uno dei motivi profondi della disputa fra autorità laiche e scolastiche sulla umanità degli indios.
Con l’Umanesimo il latino e il greco, la retorica e la storia divengono i segni distintivi del gentiluomo di buona famiglia e i requisiti di ogni attività politica, mentre allo studio degli antichi si attribuisce un valore educativo che trascende il mero accumulo di nozioni storiche o tecniche letterarie ma, secondo i pedagoghi del Rinascimento, tocca anche il valore morale dell’individuo che studia. Si gettano qui i semi di una utopia longeva e ancora oggi operativa, quella dello studio come garanzia di probità morale.
Potrà forse apparire paradossale, o addirittura oltraggioso, che il recupero del modello scolastico di educazione in Europa sia stato iniziato proprio da alcune correnti dell’Illuminismo, che per tutto il resto aveva fatto della scolastica una vera e propria bestia nera della propria visione della storia. Eppure, l’idea di cultura cristallizzata in imprese come i politecnici, l’Encyclopédie e il Caffè ricalca perfettamente il modello platonico e della scolastica, semplicemente sostituendo alla filosofia metafisica e alla teologia la fisica niutoniana. Se lo scopo della politica è soltanto di assicurare il benessere materiale alla popolazione e se questo benessere può essere raggiunto per mezzo della tecnica che manipola la materia, allora vero uomo politico è lo scienziato ed ogni singolo affare deve essere demandato a chi è competente poiché possiede la Verità (cioè la disciplina tecnico-scientifica) riguardo quell’affare.
Non che lo scienziato non sia scettico rispetto al teologo; ma che il suo scetticismo è già una dottrina ordinata e formalizzata — e in questo senso è forse ancor meno scettico che il teologo. Talché questa dottrina didattico-politica finisce per escludere il proprio della politica dalla politica, cioè la dialettica fra parti con interessi diversi in un contesto di incertezza sui fondamenti ultimi, ciò che era il centro dell’educazione umanistica. L’azione politica si riduce ad algebra del piacere e del dolore e della popolazione e alla ricerca dei mezzi tecnici per raggiungere la conformazione adeguata. Ogni Verità tende ad essere piuttosto gelosa e, come nel pensiero scolastico la lotta politica almeno idealmente non aveva alcuno spazio, così anche nel pensiero illuministico, perché entrambi postulano una Verità che dirime e anzi ha già risolto ogni conflitto. Inoltre, entrambi sono antipluralisti. L’Illuminismo, che pure a parole si presentava sotto l’insegna della tolleranza, nella pratica innalzava il metodo scientifico ad unico accesso alla Verità, sicché lo Stato post-illuministico, per quanto faccia professione contraria, alla prova dei fatti non è mai veramente laico.
Il contrasto fra educazione umanistica ed educazione scientifica, vale a dire fra Isocrate e Platone, sembrerebbe in qualche modo insanabile, ed io lo ritengo insanabile: non si può credere a chi, a cuor leggero e senza aver bene esaminato la questione, ci parla di sintesi fra cultura scientifica e cultura umanistica. Ad oggi, coloro che fanno questi discorsi in Italia sono per lo più scienziati che vorrebbero ottenere più posizioni, più fondi e più visibilità per le loro discipline. Qualora si decidesse in effetti di provare questa nuova sintesi, essa non sarebbe altro che la presa di potere della Verità scientifica su qualsiasi altra disciplina e, presto o tardi, la morte di ogni studio che non risulti sottomesso a questa Verità.
Possiamo rendercene conto guardando all’Inghilterra. L’Inghilterra, a causa della sua identità specifica, è stata estranea al grande tentativo di sintesi educativa operato sul continente nel diciannovesimo secolo. In Inghilterra fino almeno alla Seconda Guerra Mondiale, l’impianto educativo è stato principalmente umanistico. Ciò è dimostrato dal curriculum accademico dei politici, dei funzionari coloniali e dei militari di alto rango dell’Impero Britannico, i quali fino alla Seconda Guerra Mondiale provenivano da studi classici oxoniensi o cantabrigiensi. I classics erano il linguaggio comune di una élite politica e governativa che certamente si avvaleva dell’ausilio di tecnici di provenienza scientifica e anzi era per molti versi all’avanguardia in questo senso, ma che in ultima istanza prendeva le sue decisioni sulla base di fattori squisitamente umani.
L’Illuminismo non riuscì dunque a scalfire il predominio umanistico dell’Isola. Fu dalla seconda metà del diciannovesimo secolo che voci sempre più importanti si levarono per una educazione scientifica nel mondo anglosassone: gente come Mill, Russell, e poi il primo Wittgenstein (il più platonico dei platonici, poi divenuto il più corrosivo degli isocratei) e, soprattutto e sistematizzando e riassumendo tutti, Popper. Fu così che progressivamente e in parte a causa di una democratizzazione più generale della società, per la quale quelle élite chiuse nei loro codici culturali venivano viste con sospetto se non ostilità, si arrivò all’attuale sistema, che privilegia sensibilmente l’educazione scientifica nel controllo politico. In effetti, una volta che si accetti il popperismo o un’altra forma di positivismo scientista, si deve convenire che ogni materia debba farsi scienza o scomparire e che la politica sia uno spazio privo di alternative. Ciò significa che una sintesi fra educazione umanistica ed educazione scientifica, qualora il luogo della Verità sia occupato dalla scienza-tecnica moderna, non può esistere: o la scienza sottometterà e sterminerà la retorica, o la retorica dovrà relegare la scienza alle retrovie e allo stadio di non-cultura, ossia di sapere specialistico affine alla medicina e alla giurisprudenza.
La sintesi continentale.
Per la legge delle aree isolate, Albione ha conservato nel suo panorama educativo una situazione che novità occorse sul Continente hanno del tutto rivoluzionato; non è d’altronde l’unico ambito in cui ciò accade, e la parola “rivoluzionato” non è casuale in quanto la gran parte di queste innovazioni deriva in certo modo dalla Rivoluzione giacobina. La sintesi dei due sistemi educativi, cristallizzatasi a partire dall’impulso anti-illuminista dei romantici ma superando di gran lunga quel solo impulso, si deve come sempre a quel Giano bifronte di Hegel.
Potremmo racchiudere la sintesi hegeliana in una semplice formula: un sistema educativo platonico, nel quale il posto della Verità (della filosofia, della teologia, della scienza) è occupato dalla Storia. Poiché infatti per Hegel la Verità non è ma diviene e questo suo divenire è la Storia, lo studio della Storia è l’autentica teologia degli hegeliani. In tal modo, uno degli elementi centrali della educazione umanistica si trova a diventare elemento centrale di un sistema educativo platonico, in modo da platonizzare Isocrate. Si badi bene che il sistema rimane sostanzialmente platonico, perché Hegel non è veramente uno scettico e il suo divenire della Verità, pur non essendo univoco, non è neanche ambiguo grazie alla macchina della dialettica.
Dal punto di vista del curriculum, questo riposizionamento della storia ha come conseguenza la formalizzazione della storiografia e la storicizzazione di tutto il resto.
Sulla storicizzazione del resto, c’è poco da dire, dato che il fenomeno è già stato descritto mutatis mutandis nel caso della scienza poco sopra ed è facilmente immaginabile per quanto riguarda la teologia nel medioevo. Se la Verità si dà in ogni particolare come Storia, è chiaro che ogni ambito particolare dovrà essere studiato come Storia di quell’ambito, tutte quante le storie contribuendo all’intiero che è la Storia, cioè la Verità. Solo così è concepibile che si giunga a studiare la “storia della scienza” o la “storia delle religioni”: una teoria scientifica, una religione, di per sé, o sono vere o sono false e non vi sarebbe motivo di studiare gli errori sapendo già la Verità. Hegel tuttavia ci dice che quelli non sono errori ma verità, solo ancora parziali o verità “a tempo determinato”, che contribuiscono al tutto che solo alla fine è Vero.
Il pensiero di Hegel accompagna e dà senso allo sforzo tedesco del diciannovesimo di fare della storiografia una scienza, sforzo in parte già iniziato dal Wolf e, non a caso, cominciato dalla filologia classica, la materia regina dell’umanesimo. Nasce così l’Altertumswissenschaft, la “scienza dell’antichità”, e poi tutte le altre scienze storiche, che cercano di darsi metodi e logiche sempre più formalizzate come la teologia aveva fatto nella scolastica e come la scienza farà nella logica formale. Certo, la storia si era riscoperta sin dall’Umanesimo, ma possiamo dire che la corona di storico supremo fino a quel momento era stata sul capo di Tito Livio, lo storico dallo stile classico e candido (lactea ubertas). I tedeschi conducono finalmente Tucidide e Polibio alla loro rivincita. L’antichità e così il resto della storia non si studiano più per far bella figura in società o per delle pretese virtù morali attingibili da questo studio ma, esaminando il passato nella maniera più spassionata possibile, si cerca di maturare una “coscienza storica”, vale a dire una coscienza del movimento di Dio nel mondo e del proprio posto in questo movimento, requisito fondamentale per agire politicamente.
Questa idea della “coscienza storica” permette allo storicismo di ricuperare un altro aspetto della educazione umanistica. Abbiamo detto che la storia, la lingua e il canone dei classici si studiano per entrare in possesso di un codice comunicativo condiviso ma esclusivo. Ora lo hegelismo si accompagna e spesso s’incrocia con la nascita dei movimenti nazionalisti europei, i quali trovano in questa idea di una “coscienza storica” un utile strumento educativo. D’altronde Hegel stesso aveva dato un carattere nazionale a questa coscienza con riferimento alla Prussia della sua epoca. L’istituzione di scuole pubbliche statali nei paesi di recente indipendenza, come l’Italia e la Germania, vede dunque l’applicazione di un progetto educativo necessariamente nazionalista. La “coscienza storica” da formarsi non è una coscienza cosmopolita e disincarnata, ma una coscienza nazionale, poiché la nostra nazione è portatrice in questo momento della Storia delle istanze dello Spirito. D’altronde, se la politica è prima di tutto affare nazionale — e questo è il significato dell’indipendenza —, è necessario che il politico abbia una coscienza nazionale per agire come tale; deve cioè rispettare la Verità che è la nazione per partecipare alla vita della nazione.
Su questo impianto ideologico si formò la scuola pubblica italiana fin da Casati e Gentile agì in perfetta continuità con questo progetto, da bravo idealista. Su questo impianto ideologico si sono anche formati i canoni e i Parnassi nazionali, ciascuno con il suo Dante, il suo Shakespeare, Cervantes, Goethe, Ronsard, fino a Confucio più recentemente. In effetti il progetto di liceo classico gentiliano corrisponde proprio a questa idea: la classe dirigente del regime non deve essere formata su Virgilio e Dante perché questi siano riconosciuti come modelli di stile e moralità in senso assoluto, com’era per gli umanisti, ma perché queste sono le pietre miliari della formazione di una “coscienza” italiana, sono modelli di stile e moralità italiana, sviluppatasi grado a grado nelle traversie dialettiche della Storia. Naturalmente in Gentile questo progetto prendeva poi dei caratteri elitari, un po’ recuperando forse l’esclusivismo della cultura umanistica, ma nulla vietava in sé di declinare l’idea in forma democratica, come in effetti si era fatto nel Risorgimento, quando si parlava ancora di “fare gli italiani”.
”Ma Virgilio e Dante non erano italiani” obietterebbe l’albionico ipogonadico. Chiaramente no, e probabilmente anche molti idealisti erano consci della natura posticcia di queste realtà, ma ciò non invalidava il loro sistema. Il punto non è che Virgilio e Dante non fossero italiani, ma che lo sarebbero diventati: la natura storica della Verità in questo sistema fa sì che si possa insegnare ciò che non è ancora vero ma che insegnandolo lo sarà. Gli italiani non sono gli antichi romani? Non ancora, ma quando esisterà un Impero d’Italia, gli italiani saranno diventati gli antichi romani, e se non si insegna loro che sono già gli antichi romani non lo diventeranno mai. Come si vede, il rapporto piuttosto allegro di Hegel con la Verità fa sì che il suo sistema educativo possa essere piegato alle esigenze di propaganda e di ingegneria sociale più disparate.
E così fu, ripetutamente. L’altro grande schieramento, dopo i nazionalisti, a far largo uso della divinizzazione della Storia hegeliana a fini educativi furono i socialisti. Nel loro caso la “coscienza storica” diviene, ovvio, “coscienza di classe” o, più recentemente, “identità di genere”, ma la struttura rimane la medesima. La comunità inesistente che si vorrebbe esistere viene fatta esistere proiettandola indietro nella Storia, mentre solo chi appartiene alla comunità, dotato di “coscienza storica”, può legittimamente partecipare alla vita collettiva della comunità; quando poi questa comunità, com’è il caso del proletariato nel socialismo, si candida ad essere non solo una nazione fra le altre ma il Popolo Eletto della Storia, ecco che l’agibilità politica in tutta la società viene a pendere, secondo questi ideologi, dalla corretta “coscienza storica”.
L’utopia della cultura.
Ora è un fatto che questa sintesi di educazione isocratea e platonica in Europa continentale sia ormai del tutto scomparsa a favore della scuola illuministica a base niutoniana. L’unico paese in cui essa ancora sopravvive è l’Italia, e questo non è l’unico fenomeno bizzarro nel rapporto fra politica ed educazione nel nostro paese. Altrettanto importante è che nel resto d’Europa i partiti di sinistra hanno per lo più attaccato il vecchio modello hegeliano e nazionalista in favore di quello illuminista ormai disponibile solo come merce d’importazione anglosassone; per contro, le destre hanno tentato di difendere gli scampoli di educazione umanistica rimasti, spesso senza riconoscerne l’incastonatura hegeliana (quindi non umanistica).
In effetti, venuta meno la fede in una Verità che si dà nella Storia e dunque venuta meno una lettura metafisica della Storia, non vi era alcun motivo di ritenere l’insegnamento di una serie di fatti svuotati ormai (proprio dallo storicismo!) di ogni valore morale o comunicativo. La larva dello Spirito che un tempo li animava era disgustosamente marchiata da quel nazionalismo ormai annoverato fra i peccati mortali della cultura europea, talché era necessario liberarsi della Storia, “perché non accada mai più”.
Al contrario, nel nostro paese le sinistre hanno strenuamente difeso la cultura umanistica e la scuola gentiliana dagli assalti delle destre liberali. Il merito — se così si vuol dire — di ciò è da attribuirsi probabilmente a Gramsci e al suo pensiero riguardo gli studi classici che deve aver influenzato il nostro Partito Comunista, il quale a sua volta controllava (e controlla) in larga misura l’educazione e la cultura nel paese. Il risultato di questa curiosa inversione è l’idea corrente nel paese che la cultura letteraria renda persone migliori. Cercherò qui di esaminare l’origine e il carattere di questa idea.
Per moltissimi aspetti la difesa della cultura umanistica delle sinistre fa capo ad argomenti isocratei che nel nostro paese, data la sua lunga tradizione di umanesimo, e specialmente di umanesimo laico contrapposto alla cultura scolastica del clero, hanno gran presa. Gramsci stesso difendeva lo studio della grammatica per le sue caratteristiche repressive, che disciplinano il fanciullo preparandolo alla fatica e all’impegno della vita sociale o intellettuale. L’argomento più importante a favore dell’umanismo però è — paradossalmente — proprio la sua inutilità pratica. Decostruito e svuotato di senso il progetto risorgimentale di costruzione di una coscienza nazionale, lo studio della storia e delle materie ad essa contigue, esercitato sine ira et studio come richiesto dalla miglior prassi scientifica, risulta una attività di nessunissima rilevanza economica o sociale. E proprio perché non è rilevante economicamente e socialmente essa è un atto politico — così almeno ritengono i gramsciani d’Italia — di sfida al capitalismo. D’altronde è proprio su questo fronte che le destre attaccano quello studio, rilevandone l’inutilità per l’inserimento nella vita lavorativa.
C’è una contraddizione stridente in questa posizione. La tradizione socialista vuole che, nel mondo moderno, la partecipazione alla vita politica avvenga proprio per mezzo del lavoro: è la fabbrica molto più che il parlamento il luogo politico sacro della sinistra, il sissizio cui accedono solo gli spartiati, la curia dei teologi del proletariato. E dunque sarebbe logico che la scuola preparasse (come in Unione Sovietica faceva) l’alunno al sacro momento del lavoro, sia in senso molto pratico come avviamento professionale che nel formargli una adeguata “coscienza di classe”. Come mai dunque il non prepararsi al lavoro può divenire un atto di sfida politica? Io credo che, nella società capitalista, i socialisti diffidino ancora tanto del lavoro, in quanto gestito e controllato dalla “borghesia”, da non voler plasmare la scuola sulla base delle esigenze della azienda, rischiando di perdere il reame che toccò loro in Italia dopo il ‘43. Non a caso, sulle materie classiche Gramsci pose una ipoteca temporale, sostenendo che, certo, esse sono importanti per l’emancipazione del proletariato per il momento ma che, in una società socialista, si dovrà pur sbarazzarsene in quanto non conformi alla coscienza di classe del proletariato stesso, in favore di attività più formative e pratiche. E tuttavia, finché il lavoro sarà subalterno al capitale, la scuola, strumento di egemonia culturale, deve resistere alla forma che il capitale vorrebbe imporle e l’umanesimo diviene utile in questo senso per la sua inutilità. Studiare cose inutili però non è tanto un atto di sfida dadaista al capitalismo, quanto l’unico modo di conservare una posizione strategica (la scuola) in maniera che sembri legittima alla popolazione italiana, la quale conserva ancora il senso elitario delle humaniores litterae.
Così tuttavia il socialista casca dalla padella nella brace, trovandosi non solo a difendere testi antichi e autori reazionari, ma addirittura a coltivare un senso di elitarismo intorno allo studio e allo studio umanistico in particolare, che mal si accorda con la sua pretesa missione liberatrice delle classi subalterne. L’unico modo per alleviare questa posizione, oggettivamente piuttosto scomoda, è sottoporre l’intero curriculum a una serie di violenze assurde. Prima di tutto, bisogna mettere la Storia al centro in senso marxista, cercando di creare una “coscienza storica” progressista. Ove non fosse proprio possibile occultare le aporie di una tale lettura, si dovrà procedere con lo scalpello della dialettica, decostruendo e dissociando l’allievo dal passato (“quelli non eravamo noi, noi invece…”), come da lezione dei postmodernisti francesi. Infine, nei casi più disperati, sarà sufficiente escludere dal novero della “cultura” in senso proprio gli autori sgraditi. Appunto come avevano fatto i nazionalisti, il canone come strumento di pianificazione, più che di conservazione, politica. Su questo letto di Procruste l’umanesimo può persino finire per aiutare la Rivoluzione.
Il risultato di queste violenze intellettuali, unito alla storia umanistica del nostro paese, sempre pronto a ritenere un po’ più umano chi ha studiato, sono idee d’uso comune per cui “il fascismo si cura leggendo”. Poiché però sono stati i socialisti a decidere cosa si legge quando si legge, e se non si legge quel che dicono loro non si sta leggendo, e poiché chi non legge è fascista, ecco che ogni possibilità di una cultura non socialista sembra eliminata alla radice. La pervasività di queste idee è tanto più sorprendente quanto più si pensa alla sfilacciatura, anzi all’evaporazione istituzionale del socialismo dopo il 1989. Non ci sono più i socialisti: tutti sono socialisti.
Ciò che questa voce di dizionario dovrebbe invece aver chiarito una volta per tutte è che l’utopia dell’educazione è falsa. Con “utopia dell’educazione” intendo appunto questa larva dell’umanesimo e di Hegel, per cui il Male Assoluto (qui nelle vesti del fascismo) possa essere sconfitto con le forze della Cultura, e che ad ogni male relativo (la corruzione, la Mafia, l’ecologia ecc) sia sufficiente applicare forti dosi di educazione per vederlo guarito nel giro di qualche generazione. No e poi no: noi cattolici lo sappiamo sin da Erode e Caifa, gli altri se lo devono ricordare dal ventesimo secolo, ma la cultura non rende nessuno più umano, né lo dota di una “coscienza” speciale che lo metta al riparo dall’errore.
קֶ֥רֶב אִ֝֗ישׁ וְלֵ֣ב עָמֹֽק