Definizione – Esperienza controllata.
Commento alla definizione – La definizione data è da intendersi come definizione aristotelica per genere e differenza specifica. L’esperimento rientra dunque nel genere delle esperienza, ma ne è una specie particolare contraddistinta dal controllo. Per intendere la natura dell’esperimento dobbiamo dunque definire il genere dell’esperienza e il concetto di controllo.
Una definizione intuitiva di esperienza è “ogni fatto del mondo che noi percepiamo con i cinque sensi”. Questa definizione è tuttavia insufficiente, perché si dà ben il caso di “esperienze” che non passino per i cinque sensi, come per esempio le emozioni o i sogni; addirittura, possiamo citare il caso limite dell’esperimento mentale, che non è altro se non una tale esperienza non sensibile però indotta volontariamente e controllata. Inoltre, la formulazione della definizione è deficitaria, poiché non se ne capisce se il fatto del mondo è una esperienza solo quando noi lo percepiamo o per il fatto di essere percepibile. è evidente che può chiamarsi a pieno titolo esperienza solo il fatto del mondo quando è percepito; il che ci suggerisce una miglior definizione del termine, dato che implica il soggetto percipiente come componente fondamentale del concetto di “esperienza”. L’esperienza è dunque l’incontro fra un fatto del mondo e un soggetto che lo percepisce. A ciò andrebbe forse aggiunto che il soggetto deve avvedersi del fatto del mondo e, possibilmente, ricordarsene. Questo perché un gran numero di fatti del mondo ogni momento vengono da noi percepiti, ma noi tendiamo a definirli “esperienze” solo a posteriori, nel momento in cui ce ne ricordiamo in funzione di qualcos’altro. E perché noi possiamo ricordarli, dobbiamo in qualche modo averli non solo percepiti ma aver avuto coscienza di averli percepiti. L’esperienza è un memorabile incontro del soggetto con un oggetto.
In questo concetto mi sembra sia connaturato un che di passivo. Sembrerebbe che il contenuto della mente del soggetto venga determinato da qualcosa di esterno alla mente stessa, anche nel caso limite delle esperienze interiori che presuppongono una specie di sdoppiamento nel quale l’anima contempla e ricorda se stessa. Anche in quel caso il contenuto dell’esperienza è distinto dall’anima che lo ricorda e viene percepito non come un suo prodotto ma in maniera non diversa ad un oggetto del mondo sensibile incontrato e non prodotto. Indizio di ciò è il fatto che si dica comunemente “esser presi dalla rabbia” o da qualche altro sentimento, o “essere suggestionati”, con voci di verbo al passivo. D’altra parte, si dice esperienza anche della ripetizione di una attività, come se si potesse produrre l’esperienza, cioè che questa fosse il frutto di una nostra attività. Contro a ciò si deve pensare in che senso si dica esperienza nel caso dell’esercizio ripetuto di una attività; in particolare ci deve colpire che “esperienza” si applichi solo alla ripetizione dell’attività o, detto altrimenti, che si dica esperienza solo di una attività passata. Ciò segnala che, dell’avvenimento complessivo innescato dalla tua attività, la parola “esperienza” vuole designare ed isolare soltanto la tua conoscenza degli esiti passivi (non scelti da te agendo) dell’attività. Per esempio diciamo di uno che è un esperto guidatore non perché conosca in sé come si guida, ma perché ricorda moltissimi avvenimenti scaturiti dalla sua azione di guidare in varie occasioni, come le sensazioni e le risposte di diverse macchine alle sue azioni, i tipi di fondo stradale, le diverse condizioni atmosferiche etc.
Dato questo carattere passivo dell’esperienza, che si impone al soggetto a prescindere dall’azione del soggetto stesso, l’idea di una esperienza controllata ha un che di paradossale, come il caso di uno che liberamente decida di vendersi schiavo o, al contrario e per usare una dotta citazione, come Plinio dice a Traiano “Iubes esse liberos? Erimus”. Allo stesso modo l’esperimento può essere visto come un soggetto attivo che attivamente disponga la sua passività; la scelta attiva della passività. Ciò è naturalmente possibile nel mondo materiale perché la materia fa da mediatrice e permette la compresenza di attività e passività, sia per mezzo del tempo che dello spazio: noi disponiamo alcuni oggetti in un certo modo – e in questo esercitiamo una attività – e poi ne osserviamo il comportamento, che avviene in accordo con la nostra disposizione iniziale ma al di là delle nostre previsioni; noi siamo dunque causa ma, essendo causa cieca al futuro, subiamo anche l’esito delle nostre azioni. è più difficile che questa mediazione si dia senza materia, sul piano dei contenuti mentali, motivo per cui è bene diffidare degli esperimenti mentali e, forse, non dovrebbero essere chiamati affatto esperimenti ma qualcosa di simile a entimemi o argomenti per ipotesi.
Veniamo ora al concetto di controllo. Il termine può essere inteso in due accezioni, l’una più comune e generica, l’altra più specifica e originaria. Nell’accezione comune, “controllo” significa la potenzialità di un agente di determinare un avvenimento del mondo, per esempio impedendolo, portandolo ad un esito voluto o anche solo permettendolo, il che non nega la presenza dell’agente ma ne afferma la potenza anche in assenza dell’atto. In che senso il controllo è assente nell’esperienza ordinaria e presente nell’esperimento? Nell’esperienza ordinaria non è escluso che l’agente umano agisca e abbia la potenzialità di permettere, negare o condizionare un avvenimento. Ciò avviene tuttavia in maniera naturale, nel senso etimologico della φύσις greca: gli avvenimenti si susseguono o si accompagnano scaturendo l’uno dall’altro senza apparente soluzione di continuità; l’agente umano è inserito in questo flusso cui risponde e dal quale è limitato nella scelta di risposte. Anche quando non è assente una forma di controllo nella seconda accezione – un piano – questo rimane tuttavia occasionale e riferito ad un’unica azione o avvenimento e non alla totalità degli avvenimenti possibili; ciò limita molto l’efficacia dell’azione umana che rimane aperta all’imprevisto e dunque al carattere passivo proprio dell’esperienza.
Al contrario, l’esperimento è un frammento estratto dal continuum dell’esperienza attraverso una scelta arbitraria dell’uomo, che ne definisce le condizioni di partenza, ne predetermina lo svolgimento e ne prevede il risultato. Questo perché nel caso dell’esperimento, l’agente provvede non al solo avvenimento cui è interessato, ma a tutti gli altri avvenimenti possibili del mondo per mezzo dell’isolamento, della selezione cioè e del limite ai frammenti di realtà che possono intervenire nell’avvenimento. La differenza fra esperimento ed esperienza non è tanto nella scelta degli specifici fattori causali che si vogliono vedere intervenire, ma nell’esclusione di tutti gli altri. Quanto detto vale non solo per gli input ma anche per gli output dell’esperimento: l’esperimento ideale fornisce la risposta ad una domanda tipo utrum an, non ad un quid? Il numero di esiti dovrebbe essere limitato al minore possibile, due, conservando la quantità di passività minima alla realtà da permettere alla realtà stessa di dirci qualcosa che non sapessimo già. In questo senso è più vero il paradosso sopra esposto dell’esperimento come di una attività che predispone la propria passività. L’esperimento è, a tutti gli effetti, una riduzione sotto il controllo umano di un frammento di realtà.
Ora, per capire meglio in che senso l’isolamento e la predeterminazione della realtà funzionino, dobbiamo richiamare la seconda e più originaria accezione di controllo, un prestito dal francese contre rôle, il contro-registro sul quale è possibile verificare la correttezza dei conti del primo registro. “Controllo” in questo senso è una duplicazione della realtà, una sua μίμησις o rappresentazione, su altro supporto, che permetta all’uomo di ragionare sulla realtà; l’essere umano infatti non è capace di cogliere intuitivamente se non in pochissimi casi alcun contenuto, ma è costretto, per produrre conoscenza o almeno argomenti persuasivi, a rifarsi al ragionamento, cioè allo stabilire delle relazioni fra cose. Per questo motivo è giusto dire che scire est scire per causas, perché la causalità è una relazione; e per questo motivo il confronto e l’analogia sono strumenti produttivi di conoscenza o persuasione. Per questo infine la duplicazione della realtà su altro supporto, il “controllo”, dovrebbe produrre conoscenza.
La duplicazione della realtà è in certa misura presupposta nel concetto di esperienza dal momento che, come avevamo notato, esso si riferisce sempre ad un avvenimento passato; l’avvenimento è esperienza solo ex post, come ricordo o segno lasciato sulla persona che vi ha partecipato. Esso dunque è rappresentato o duplicato sul supporto della memoria. In tal modo l’esperienza funge da contre rôle del mondo, perché il nuovo avvenimento può essere confrontato con quelli passati per produrre ragionamento. Come nel caso della attività o passività e del controllo nella prima accezione, la differenza fra esperienza ed esperimento è più sottile di quanto appaia, anche qui per il fatto che, mentre nell’esperienza ordinaria queste categorie si trovano mescolate in maniera casuale, nell’esperimento esse sono disposte e distinte in maniera arbitraria. L’esperienza ordinaria è la duplicazione della realtà, un continuum magmatico di attività e passività, sul supporto inaffidabile, esso stesso passivo rispetto al mondo e attivo sull’agente, della memoria: la memoria acquisisce passivamente dalla realtà (salvo il caso dello studio), il ricordare si impone alla mente al di là della volontà di questa di produrre l’immagine del ricordo (ci sono cose che vorremmo ricordare e non riusciamo, cose che vorremmo dimenticare e tornano continuamente).
Nel caso dell’esperimento la duplicazione della realtà non è solo l’esito del processo, ma accompagna la sua interezza; non solo, ma l’esperimento scientifico comprende una duplicazione della duplicazione, dunque un piano di controllo ulteriore. Per primo consideriamo l’estensione della duplicazione nel processo. Perché l’esperimento risponda ai criteri esposti sopra di isolamento dai fattori indesiderati della realtà e di risposta il più possibile binaria ad una domanda, bisogna che esso sia accuratamente pianificato. Prima ancora che venga alla luce, dunque, l’avvenimento è duplicato nel progetto che se ne fa e sul quale si controlla la preparazione dell’esperimento stesso, in modo che sia conforme alla sua duplicazione progettuale. Fattore decisivo, il processo viene poi confrontato agli esiti sperati in modo da stabilirne la conformità o meno agli stessi: la produzione di conoscenza specifica dell’esperimento sta proprio in questo controllo, nella duplicazione fra aspettativa e realtà e dunque nella possibilità di rispondere ad una domanda binaria (utrum an). Nei rispetti del tempo, e dunque anche in assoluto, si tratta di una conoscenza del tutto diversa da quella partorita dall’esperienza: nell’esperienza il controllo avviene ex post, quando confronto il ricordo con il presente; nell’esperimento il controllo avviene ex ante, quando confronto il presente con le aspettative; il risultato di quella è una stima qualitativa, sicché la ripetizione dell’esperienza è sempre capace di produrre nuova conoscenza approfondendo, sfumando, ampliando la conoscenza già presente, mentre il risultato di questo è un semplice giudizio binario, aut l’esperienza si conforma all’aspettativa, aut non, tale per cui la ripetizione dell’esperimento potrà semmai individuare delle magagne nella preparazione pratica del processo, magari addirittura ribaltandone il risultato, ma non mai aggiungere nuova conoscenza.
Ultimo risvolto del controllo esercitato nell’esperimento è il fatto che preparazioni, procedimenti ed esiti non sono registrati nel contre rôle per mezzo del linguaggio umano ma per mezzo della misura. Anche qui, la differenza non è così ovvia come potrebbe sembrare, dato che la misura e il linguaggio condividono alcune caratteristiche, ma tuttavia è significativa. Per prima cosa si potrebbe obiettare alla distinzione che la misura e il linguaggio sono entrambi delle mediazioni, delle trascrizioni simboliche dell’esperienza; infatti, il ricordo di una cosa, quando ci si presenta, ci si presenta somigliante alla cosa, mentre quando lo raccontiamo, il nostro racconto è dissimile dalla cosa stessa a causa della mediazione del linguaggio. Ciò è vero, e già il fatto che l’esperimento presupponga sempre una diffusione ed una pubblicazione ad altri, a chi non era presente, mentre la massima parte dell’esperienza della totalità degli uomini è confinata alla loro coscienza, implica già una mediazione simbolica di qualche tipo che renda possibile la comunicazione e che rimane assente nell’esperienza ordinaria per lo più. Quanto voglio argomentare è che il fatto di trascrivere in termini quantitativi e non linguistici sia un grado ulteriore di controllo rispetto alla descrizione in termini linguistici, essa stessa una duplicazione simbolica della cosa stessa o del suo ricordo.
Un’obiezione feconda alla mia ipotesi è che il linguaggio e la misura, nelle loro componenti atomiche della parola e del numero, rappresentino entrambi un limite e, dunque, una forma di controllo nel senso espresso sopra della limitazione dei fattori. A ciò rispondo richiamandomi alle dottrine non scritte di Platone, che tracciavano l’origine del numero dall’essenza stessa dell’Illimitato e da quella del Limite. Lasciamo stare per ora il rapporto del numero con l’Illimitato su cui tornerò più avanti e concentriamoci sul rapporto fra il numero e il Limite. Il numero preso in se stesso (al di là del sistema dei numeri) è Limite in senso forte, perché è un limite univoco e invalicabile. Invalicabile nel senso che, se lo valichi, non sei già più in quel numero ma in un altro, dunque il numero in sé è conservato; il che significa che il numero risponde perfettamente alla legge dell’identità e a quella della non contraddizione, e dunque è perfettamente univoco. La parola è anch’essa un limite, ma in maniera equivoca e valicabile. Circoscrive, si può dire, uno spazio di significato, ma i confini di questo spazio sono negoziabili di volta in volta e dipendenti comunque dal sistema delle altre parole che li circonda. Voglio dire che, anche nel linguaggio naturale, noi non possiamo assegnare in maniera del tutto arbitraria il significato alle parole, ma che questa impossibilità è causata dal sistema delle altre parole intorno e permette comunque una selezione del significato da un insieme più o meno dato, mentre nel caso del numero i confini non sono negoziabili e ad ogni segno corrisponde un solo significato.
Col che, il sistema delle parole, il linguaggio, è una rappresentazione assai più simigliante ed immediata (nel senso che la mediazione vi è ridotta al minimo) della realtà e dell’esperienza che non la misura, cioè il sistema dei numeri. Come la realtà, il linguaggio è a noi comprensibile solo nel continuo rimando di ogni suo elemento a tutti gli altri, senza che si diano momenti isolati, e ci è comprensibile il più delle volte intuitivamente, perché ci restituisce le immagini delle cose che rappresenta alla mente. Certo, il processo è soggetto ad errori e ambiguità, ma anche la nostra esperienza del mondo è fallace e non sempre univoca. Il linguaggio è con-forme, ha la stessa forma, della realtà e della nostra mente, o almeno dell’unica realtà con cui siamo in relazione cioè la realtà colta dalla nostra mente, e perciò è la mediazione più precisa fra noi e il mondo. Quando invece rappresentiamo la realtà con un sistema di numeri, cioè misurandola, noi introduciamo un meta-controllo, un controllo del controllo, perché non solo stiamo traducendo l’esperienza su un nuovo supporto, ma la stiamo traducendo su un supporto non conforme al supporto originario: è la stessa differenza che intercorre fra una rappresentazione della terra come solido tridimensionale o come mappa piana bidimensionale; essa ci costringe ad una serie di stipulazioni matematiche che ne permettano l’adattamento, le proiezioni. L’approssimazione in fisica non è altro che la più pervasiva proiezione della realtà sul piano bidimensionale, cioè binario, del numero. Lo scopo della proiezione è proprio il controllo nel senso primo di una limitazione drastica degli esiti possibili: la misura impone alla realtà di dirci soltanto sì sì no no, e tutto il resto verrebbe dalla superstizione.
Esperimento, verità, potere – Nel presente paragrafo dimostrerò come l’intiero edificio della scienza, intesa nell’accezione più comune al giorno d’oggi, possa essere ridotto al solo costrutto dell’esperimento appena definito. Gli scienziati sono pronti ad accettare le ricadute di questo sulle pretese veritative della loro disciplina, ma ci chiedono in cambio, come dimostrerò, di deformare il nostro concetto di verità oltre l’ammissibile. Ciò a sua volta permette finalmente di capire i contorni del conflitto scienza e fede, al di là delle formule stantìe che ancora caratterizzano i contendenti attuali e permette di legare le abiezioni della modernità in maniera certa e necessaria alla epistemologia scientifica.
La pretesa di verità della scienza presso la popolazione generale e presso i filosofi dei secoli passati poggiava su alcuni argomenti retorici che, in relazione alla scienza dell’epoca, potevano apparire dimostrativi ma che, esaminati più attentamente, non sono affatto conchiudenti. Per comodità è possibile personificare questa vecchia epistemologia, che definiremmo bene positivista, nella metodologia galileiana delle sensate esperienze e necessarie dimostrazioni. Dal punto di vista del fine, la scienza positivista si presentava come una spassionata ricerca della verità, in un primo momento motivata dalla fede in un Dio Creatore e Verità, poi ben presto come esaltazione idealistica della verità in sé e per sé (in realtà come solvente della religione). In ogni caso, questa epistemologia era nei fini ancora conservatrice delle istanze della filosofia classica ed aristotelica in particolare, nel fatto che si vedeva come metodo di produzione di contenuti intellettuali che riflettono o imitano fedelmente la realtà, senza offrire un rendiconto delle capacità produttive, tecniche, del sapere prodotto.
Dal punto di vista dei mezzi, è necessario considerare separatamente le due componenti delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, al di là del fatto che anche qui Galileo scelse di presentarsi in continuità con la scienza aristotelica, visto che sia il richiamo all’esperienza dei sensi che al carattere necessario delle proposizioni scientifiche che anche l’importanza della dimostrazione come forma propria del discorso scientifico echeggiano la lunga discussione medievale degli Analitici Posteriori del Filosofo. Questa continuità è ancora operativa nella concezione comune della scienza come sapere dimostrativo, meccanicistico e basato saldamente sull’esperienza dei sensi.
La patina aristotelica camuffa tuttavia una realtà ben diversa. Le necessarie dimostrazioni, ad esempio, non sono affatto i sillogismi espressi nel linguaggio naturale cui Aristotele avrebbe potuto pensare bensì prove geometriche o aritmetiche dunque manipolazioni del sistema dei numeri, la misura. Poiché, come ho dimostrato sopra, vi è una distanza morfologica fra esperienza comune e misura, Galilei (e molti scienziati dopo di lui) dovette postulare che in realtà la natura fosse conforme alla misura (e non al linguaggio): questo è il significato dei suoi pronunciamenti riguardo la matematica come linguaggio nel quale è scritto il grande libro del cosmo. Egli così richiedeva di accettare come presupposto al di là del dato ovvio ed evidente dell’esperienza comune ciò che la scienza avrebbe dovuto semmai dimostrare.
Questa petitio principii passò per lo più inosservata e passa ancora inosservata presso molti a causa di alcuni speciosi argomenti che la fisica aveva per raccomandare se stessa. Mi riferisco soprattutto al carattere dell’evidenza. Esso sarebbe garantito dall’adoprar nel fare scienza le sensate esperienze. Anche qui però assistiamo ad un proditorio slittamento di significati: l’esperienza dei sensi cui si richiama Galilei vuole bensì usurpare la evidenza propria dell’esperienza come sopra definita e la sua comunicabilità fra uomo e uomo nel presentarsi nei termini dell’esperienza aristotelica, e tuttavia essa è, in realtà, esperimento, dunque qualcosa di molto diverso dall’esperienza naturale degli uomini. L’esperienza non sarà riproducibile, però è comune e comunicabile, mentre l’esperimento, proprio perché riproducibile, richiede un dispiegamento di mezzi tecnici tale da renderlo difficilmente comune. L’esperienza dei sensi è a tutti gli uomini evidente, ma l’esperimento come responso oracolare della realtà ai criteri lei imposti dalla misura non può essere colto se non dall’iniziato ai misteri delle necessarie dimostrazioni. Questo il significato profondo della polemica sul cannocchiale all’epoca di Galileo.
I difetti dell’impostazione galileiana non vennero a galla che molto tardi tuttavia, e soprattutto perché l’evidenza fece a lungo loro usbergo. La scienza fino al ventesimo secolo si presentava come un insieme coerente di esperimenti riusciti (o istruttivamente falliti), di prove e criteri matematici e di idee espresse linguisticamente che rendevano ragione del rapporto fra criteri matematici e esperienze. Queste idee qualitative erano soprattutto immagini, certo puramente mentali, ma derivate per astrazione e analogia dai sensi e dall’esperienza più naturale, dunque dotate di un certo grado di evidenza immediata per chiunque vi si approcciasse. L’esempio migliore è quello dell’atomismo, che riduce il mondo a un ben comprensibile insieme di palline che si muovono nello spazio, facendo derivare le virtù apparenti delle cose dalle interazioni microscopiche delle suddette palline in maniera verisimile per l’esperienza comune dei sensi (p. es. il calore come espressione sensibile del movimento di particelle). Ora noi chiamiamo queste belle metafore “modelli” ma non a quell’epoca, quando esse costituivano nel sistema della scienza l’immagine riflessa della verità del Creato, gli oggetti di contemplazione e l’obiettivo stesso del metodo scientifico.
Questa visione è venuta a sgretolarsi a partire da un esperimento famigerato, la doppia fenditura. Essa per prima mise in discussione l’idea che vi potesse essere, per ogni fenomeno fisico, una univoca rappresentazione in termini immaginativi (la luce non è né perfettamente riconducibile all’esperienza dei corpi solidi che si urtano né a quella delle onde in un fluido). Da quell’esperimento derivò un periodo di approfondimento scientifico della fisica elementare che ebbe come risultato la teoria quantistica. I fisici sono giustamente scettici verso coloro che vorrebbero tirare da questa teoria delle conseguenze filosofiche di qualche tipo, come in realtà di tutti coloro che vogliano tirare conseguenze filosofiche dalle teorie della scienza lavorando per analogia e generalizzazione al di fuori del linguaggio matematico proprio della scienza stessa. Credo che, nella massima parte dei casi, essi abbiano ragione perché la qualità dei ragionamenti e dei risultati di questi filosofanti sulla scienza è infima; tuttavia, trovo significativo che questa teoria, quella dei quanti dico, abbia attirato in particolar modo l’interesse dei filosofi, tanto significativo da giustificare che si faccia una riflessione filosofica sul significato della teoria – in barba ai fisici.
Nel dialogo con i fisici, ho notato che tutti loro esprimevano una certa difficoltà nel comprendere la teoria quantistica in particolare, rispetto alle altre teorie. Non che nessun fisico la capisca, naturalmente, ma nel loro percorso di formazione essa rappresenta uno scoglio non indifferente perché, come mi è stato chiarito da un amico fisico con il quale ho discusso l’argomento, la teoria richiede di sospendere qualsiasi tipo di rappresentazione immaginativa e intuitiva di ciò che essa rappresenta, fidandosi unicamente della matematica. La teoria funziona, vale a dire che la macchina di calcolo che essa è produce i risultati aspettati, ma non produce immagini o modelli immediatamente evidenti nemmeno una volta che sia compresa con sicurezza.
Era ovvio e pronosticabile che questa particolarità della teoria quantistica aprisse la porta ad ogni sorta di speculazione filosofica. Lasciando stare le imposture e gli sporchi compromessi fra spirito e scienza dei vari misticismi scientifici basati sulla fisica quantistica, non si può negare che l’ondata di nuove epistemologie del Novecento, a partire da Popper e poi con i suoi allievi Kuhn, Lakatos, Feyerabend etc., abbia come punto di partenza la teoria quantistica, nel senso che essa non solo metteva in crisi, ma ormai escludeva del tutto il paradigma galileiano nel quale esperimento, matematizzazione e evidenza intuitiva andavano di pari passo. In primo luogo, bisognava ammettere che l’evidenza intuitiva delle teorie scientifiche, che poi era una forma di riduzionismo di fenomeni complessi a dinamiche più facilmente visualizzabili e calcolabili e dunque spesso un buon rasoio di Occam, era ormai esclusa: non solo la teoria quantistica ha moltiplicato a dismisura e senza eleganza gli enti fondamentali dai tre corpi precedentemente noti, neutroni protoni elettroni, con un movimento degno di Siriano, Damascio o Duns Scoto, ma per essa i contenuti intuitivi di tutte le teorie scientifiche si palesavano per ciò che essi erano, rappresentazioni, “modelli” e non proposizioni attinenti alla realtà in sé. Il mondo subatomico, come caso limite delle nostre epistemologie, rivelava che tutta la rappresentazione scientifica del mondo era non solo approssimazione ma proprio ontologicamente difforme dalla realtà che avrebbe dovuto descrivere. Modelli come l’atomismo, i campi, le onde potevano funzionare come strumento euristico ad usum arithmeticae, ma non potevano a rigore accampare alcuna pretesa veritativa, perché la realtà in sé rimaneva ostinatamente al di là dei nostri modelli, come la luce nella doppia fenditura.
Questo però dava un colpo se non fatale almeno brutale anche al valore della matematica. Se la traduzione intuitiva della matematica non doveva servire che a escogitare nuova matematica, senza pretesa di verità, allora la matematica stessa, per quanto aderente al dato sperimentale, non poteva avanzare pretese veritative, perché la matematica di per sé, cioè senza una legenda che ci dica cosa rappresenti, non ci dice nulla, e dunque se la legenda era provvisoria allora anche la matematica doveva esserlo. Inoltre, lo stesso fenomeno poteva essere descritto con due o più matematiche differenti – in maniera simile a come la luce poteva essere descritta con immagini ondulatorie o corpuscolari – cosicché se la matematica rimaneva un utile strumento per formulare previsioni sperimentali, essa non poteva però più assurgere a “linguaggio nel quale è scritto il gran libro della natura”, visto che nessun modello matematico poteva essere individuato chiaramente e univocamente nel tessuto della realtà.
Non solo, ma la matematica stessa della teoria quantistica poneva problemi all’ideale galileiano delle necessarie dimostrazioni. In questa matematica infatti la componente statistica – e dunque probabilistica – assumeva non solo proporzioni maggiori che nelle teorie precedenti, ma una importanza descrittiva inedita. Prendiamo per esempio la meccanica statistica, la descrizione di proprietà emergenti come il calore per mezzo di fenomeni sottostanti come l’agitazione atomica. In quel caso la componente statistica funziona come aiuto al calcolo e riduzione della complessità, rimanendo sempre teoricamente possibile ad un ente onnisciente calcolare in ogni momento ogni singolo movimento atomico producendo una immagine meccanicistica classica della realtà. Qui la matematica è consapevolmente lontana dal rappresentare fedelmente la realtà perché inserisce una approssimazione (v. paragrafo precedente), ma al contempo essa è dedotta da un più generale modello intuitivo con pretese veritative forti. Nel caso della teoria quantistica, l’elemento probabilistico non è un accidente determinato dalla limitata conoscenza umana, ma sembrerebbe inscritto nel tessuto stesso della realtà o, più propriamente, si rinuncia a capire se l’approssimazione sia parte della realtà o meno ma si scopre che essa non è accidentalmente legata alla conoscenza umana ma essenzialmente, in quanto insita in ogni tipo di conoscenza concepibile. Stando alla teoria quantistica nemmeno Dio conosce necessariamente alcuni fenomeni.
L’epistemologia scaturita dalla teoria quantistica ci lascia dunque orfani delle necessarie dimostrazioni e dell’idea di una scienza come conoscenza della realtà, conservandoci come unico tutore legale l’esperimento. Degli elementi della definizione galileiana del metodo scientifico solo l’esperimento rimane intatto di fronte alla teoria quantistica, mentre gli altri due elementi, matematica e modello, vi si subordinano. Matematica e modellistica sono discorsi che noi facciamo intorno agli esperimenti. Essi possono ben aiutare a escogitare nuovi esperimenti producendo, a partire dagli esperimenti dati, predizioni che richiedano nuovi esperimenti per essere verificate o falsificate, ma il legame che intercorre fra i risultati sperimentali e la loro interpretazione modellistico-matematica è affatto accidentale, tant’è che la stessa collezione di esperimenti può essere ugualmente bene indifferentemente interpretata con modellistiche differenti. Non c’è miglior dimostrazione della subordinazione della teoria all’esperimento nell’epistemologia contemporanea che nel falsificazionismo popperiano e nello scetticismo, da esso derivato, verso la teoria delle stringhe (not even wrong): la condizione fondamentale perché una teoria si dica scientifica è che essa faccia predizioni, che è a dire che essa sia produttiva di esperimenti. Noi non sappiamo cosa essa spieghi né se lo spieghi in maniera definitiva, ma sappiamo che essa ci fa produrre nuovi esperimenti; sebbene ciò non sia quasi mai presente alla coscienza dello scienziato e men che mai del grande pubblico, nella struttura stessa dell’impresa scientifica l’esperimento è già divenuto il fine e non il mezzo.
Torniamo ora alle origini del pensiero scientifico e confrontiamo la nostra epistemologia con quelle proposte a quell’epoca. è chiaro che il modello del Galilei si è rivelato del tutto fuori strada. Fra quei pensatori invece colui che più si è avvicinato ad una buona definizione di questo sapere nuovo fu Francesco Bacone. Egli ha più chiaramente definito la nozione di controllo nell’esperienza per mezzo delle sue tabulae, veri e propri contre-roles della realtà; nel concetto di “esperimento cruciale” ha portato questa idea di controllo alle sue conseguenze ultime immaginando un tipo di esperienza così controllata da poterci dare una risposta binaria; infine, e ciò è il più importante, egli ha identificato scientia e potentia, o, nelle parole di un altro filosofo, verum ipsum factum.
La definizione di questa nuova scienza come potere, produzione umana, identifica di fatto la conoscenza con l’esperimento. Secondo questo filosofo e secondo la scienza moderna tutta, “conoscenza” è in tutto identica a “capacità di produrre”: la scienza moderna è una collezione di esperimenti riusciti, dove le spiegazioni matematiche hanno solo valore ancillare e non di conoscenza vera e propria, sicché essa non fa altro che accumulare metodi di produzione, di manipolazione certa dell’esperienza. Non a caso, vero fine della scienza secondo Bacone è il miglioramento materiale della condizione umana – a differenza dell’ancora aristotelico Galilei che vedeva la scienza come attività contemplativa – e, coerentemente, il suo ideale politico è una tecnocrazia, come espresso nella Nuova Atlantide.
Bisogna dunque esaminare le conseguenze metafisiche di questo genere di fisica. Quid est veritas? Sembra plausibile che la verità sia il contenuto della conoscenza, cioè che la conoscenza sia la verità in relazione al soggetto. Ma noi abbiamo detto che, per la scienza, conoscenza è potere, esperimento. C’è da chiedersi dunque quale sia il contenuto del potere, dell’esperimento; facendo astrazione del soggetto nella considerazione dell’esperimento, cosa rimane che possa essere detto verità?
Una prima possibilità, quella del positivismo, è che il contenuto generale dell’esperimento sia espresso dalla legge matematica e dalla rappresentazione modellistica che l’ha previsto. In senso forte, questa possibilità è, come abbiamo già visto, da escludere. Essa è però riproposta al giorno d’oggi dagli scienziati in senso debole, soprattutto per mezzo del falsificazionismo: la verità è accettata come concetto-limite, cui le teorie scientifiche si approssimano via via senza mai poter colmare l’ultimo sempre decrescente divario, perché si approssimano per via di esclusioni. Come c’è stata una teologia negativa, qui abbiamo una fisica negativa. Ma anche un falsificazionismo in senso forte è chiaramente da rigettare, perché può ben darsi che la teoria apparentemente falsificata da un esperimento sia in realtà quella giusta che ha bisogno però di un po’ di ritocchi – ritocchi che un falsificazionismo autentico mal tollera. Lo stesso rasoio di Occam, lungi dall’essere un criterio dimostrabile e dunque conclusivo di verità è piuttosto una misura di comodità di calcolo, come la moltiplicazione delle particelle elementari ha dimostrato. L’opinione di maggioranza è dunque quella di un falsificazionismo probabilistico, nel quale il contenuto dell’esperimento è la contraddizione di una o più teorie e modelli così come sono, e dunque uno spostamento delle probabilità di verità fra una teoria e l’altra.
Non solo dunque le dottrine scientifiche contengono un probabilismo ineliminabile e originario, come dimostrato dalla quantistica, ma sono anche regolate nei loro rapporti reciproci e nel loro rapporto con la collezione degli esperimenti – vale a dire nel loro rapporto con la verità cioè nel loro statuto di conoscenza – da criteri e calcoli probabilistici. In tal modo, non solo l’esperienza viene controllata per mezzo del numero, come già nella metodologia galileiana, ma il controllo stesso viene sottoposto e controllato dalla misura. Qui torna comoda la definizione platonica del numero come prodotto del Limite e dell’Illimitato. In quanto il numero partecipa dell’Illimitato, la sottomissione del giudizio di verità alla misura nel probabilismo dissolve quel giudizio stesso. Ciò avviene in due modi. In quanto il numero partecipa dell’Illimitato, ogni numero è indifferente all’altro, cioè la loro differenza è sempre un altro numero, senza che si possa giungere ad una differenza più fondamentale che il numero stesso – dunque qualitativa e non quantitativa. In tal modo la differenza fra i numeri non nega la loro compresenza – non vi è alcuna contraddizione fra 9 e 10 presi di per sé. Allo stesso modo, esprimendo il rapporto di una proposizione alla verità in termini numerici invece che in termini qualitativi fondamentali come vero/falso, è possibile far convivere senza contraddizione più proposizioni mutuamente esclusive se prese nel solo loro contenuto. Secondariamente, la serie dei numeri è infinitamente prolungabile in alto, in basso e in mezzo, senza incontrare alcun limite. Allo stesso modo la relazione fra la teoria e la verità è infinitamente approssimabile per mezzo della probabilità senza che alcuna teoria possa definitivamente possedere la verità.
D’altro canto, il numero partecipa anche del Limite e allo stesso modo le teorie scientifiche circoscrivono comunque uno spazio entro il quale prevedono si trovi la verità. Anzi, quanto più lo spazio è circoscritto – quindi tanto più una teoria partecipa della natura limitante del numero – tanto migliore essa viene considerata dagli scienziati. Come abbiamo dimostrato nel commento alla definizione, si vuole interrogare l’esperienza limitando al massimo gli output possibili, cioè costruendo una teoria quanto più possibile univoca in tutte le sue ramificazioni. Per questa compresenza di limite e illimitato, la visione scientifica del mondo ammonta ad un trotzkismo epistemologico: essa impone in maniera spietata all’uomo un atteggiamento di rivoluzione permanente nei confronti della verità. La teoria che al momento gode di un vantaggio probabilistico è assunta in tutta la sua lettera che uccide, cioè nella sua univocità numerica indiscutibile, per poi essere prontamente scartata e sostituita con un’altra e uguale tiranna una volta che un esperimento abbia mosso le fiches della probabilità a suo sfavore. Così l’uomo viene disabituato al concetto e al rapporto con una verità razionale e permanente, non però sostituendola con uno scetticismo dove tutto vale, bensì con l’indiscutibile autorità degli scienziati, custodi della corrente dottrina. Gli scienziati sono, in questo parallelismo, il partito bolscevico del sapere, che sempre agita l’uomo per meglio dominarlo. Per innumeri essempli di quanto qui argomentato, basti solo ricordare di molti casi durante la pandemia di covis.
Questo stato di agitazione epistemologica permanente, di accettazione sempre con riserva di ogni teoria, disabituando l’uomo alla luce della verità al modo come un multiforme spettacolo di ombre proiettate sul fondo di una caverna disabituerebbe gli uomini alla luce del mondo esterno, è il principale elemento di incompatibilità teoretica fra la scienza e la religione; non solo, a ben vedere contro il trotzkismo epistemologico non milita soltanto la fede, ma anche la ragione, che non può accettare una così plateale e continua negazione dei principi di identità e non contraddizione senza ammattire. Fu dunque una gigantesca scotomachia quella iniziata con gli illuministi e che ancora oggi continua, per esempio in America, fra difensori della “Ragione” e paladini della “Fede”: quasi tutti i loro argomenti sono vani perché entrambi gli schieramenti sbagliarono completamente a identificare il problema, identificando la scienza con la ragione tout court e contrapponendovi la fede. è cosa vana per chi vuole difendere la fede cercare di giungere ad un modus vivendi con la scienza, per esempio stipulando che la scienza risponda ad un certo tipo di domanda – il famoso “come?”, cioè i processi e i meccanismi dei fatti del mondo – mentre la fede risponderebbe ad un altro – il “perché?” dei fini; oppure cercando di integrare l’ultima dottrina cosmologica o fisica nel grande impianto della fede. Al primo punto possiamo rispondere che la scienza non risponde ad alcuna domanda, compie solo esperimenti, e che la domanda sul fine è formulata e in parte risposta già dalla ragione naturale rettamente usata, la quale non è affatto contrapposta alla fede ma lo è alla scienza. Sul secondo punto bisogna dire che in tal modo la ragione e la fede si metterebbero a inseguire di corsa una locomotiva che non potranno mai raggiungere; non solo la fede-ragione arriverà sempre in ritardo e in maniera imprecisa a ricomprendere la dottrina scientifica corrente, ma il cambiamento continuo di posizione, che nella scienza è connaturato e dunque accettabile, getterà in discredito sia la ragione che la fede, le quali invece possono operare solo sul fondamento di una verità reale e permanente; come un re e una regina in abiti augusti e con capigliature curate che, colti da insensatezza, si mettessero ad inseguire di corsa un gatto randagio che passi per strada, uscendone trafelati, spiegazzati, scarmigliati e, in ultima istanza, ridicoli. Al contrario, l’apologetica cristiana e il protrettico alla filosofia farebbero bene a concentrarsi proprio sulla falsità metodologica della scienza, piuttosto che sul momentaneo risultato da essa raggiunto.
Prendendo seriamente l’identità baconiana scire est posse e dunque la riduzione dell’edificio della scienza alla collezione degli esperimenti, si perviene ad altre due possibilità di articolare il rapporto fra esperimento e verità, l’una di segno opposto all’altra. Se, come abbiamo detto, la conoscenza è potere o esperimento, e se la verità è la conoscenza fatta astrazione del soggetto, allora cadiamo in una contraddizione, perché abbiamo detto che l’esperimento è una esperienza controllata ed il controllo presuppone sempre un soggetto; e infatti il potere è sempre potere di un soggetto o azione di un soggetto nel mondo (qui lo sperimentatore). Delle due l’una, o la verità non esiste, perché non esiste conoscenza (cioè esperimento, cioè potere) astratta dal soggetto, oppure una delle premesse è falsa. Mi verrebbe da dire, come Anselmo, che la verità per definizione deve essere vera (almeno se vogliamo che altre proposizioni possano essere vere), col che si sarebbe provato un errore nelle premesse, ma andiamo per ordine.
Imbocchiamo la prima strada: conoscenza è potere, cioè conoscenza non è altro che la collezione degli esperimenti. Contro all’idea che una tal sorta di conoscenza presupponga la nozione di un soggetto non solo in quanto conoscenza (si predica la conoscenza di un soggetto, non di un oggetto, o di un oggetto in riferimento ad un soggetto) ma anche nei suoi stessi contenuti, si potrebbe obiettare che l’esperimento per come definito dalla scienza deve avere valore universale e replicabile, deve cioè prescindere dal soggetto empirico che di volta in volta lo mette in pratica. Contra, questo non esclude affatto che la nozione di soggetto sia compresa nel contenuto dell’esperimento, ma esclude semmai un qualsiasi soggetto empirico; a compiere l’esperimento può essere un umano di qualsiasi sesso, razza, religione, età, in qualsiasi tempo e luogo, ma resta il fatto che l’esperimento come sapere operativo presuppone un soggetto umano che lo metta in atto. L’espressione proposizionale della conoscenza sperimentale spogliata di qualsiasi costruzione teoretica non sarebbe se accade x allora y, o x è la causa di y, perché tali proposizioni presupporrebbero già una teoria riguardo il mondo; bensì se compirai x a queste condizioni, allora vedrai y. Questo tipo di proposizioni è quello che più immediatamente e correttamente esprime il contenuto dell’esperimento scientifico. L’onere della dimostrazione che da queste proposizioni si possano dedurre le proposizioni del primo tipo (x è causa di y) sta ai galileiani, siano essi vecchio stile, falsificazionisti o probabilisti. Potrebbero per esempio argomentare che non tutti gli esperimenti riescono, il che è a dire che il soggetto non può istituire legami arbitrari fra cause ed effetti negli oggetti del mondo; dal che si può dedurre che, accanto al controllo del soggetto, qualcos’altro agisca nell’esperimento; e che l’identificazione del qualcos’altro è precisamente il contenuto dell’esperimento. Rispetto alla proposizione x causa di y il singolo esperimento non avrebbe valore dimostrativo – almeno nell’accezione probabilistica della teoria – ma solo persuasivo, mentre l’accumulo di esperimenti aumenterebbe o diminuirebbe la probabilità (cioè la persuasività, cioè che persuade è ciò che ha più possibilità di essere approvato) di una certa proposizione, senza che questa diventi mai una certezza trattandosi in fondo di un ragionamento induttivo e non deduttivo. Ammettendo questa giustificazione del valore veritativo degli esperimenti, il probabilista deve però escludere che vi sia una differenza significativa fra scienza e retorica: entrambe producono argomenti persuasivi e probabili, senza che – date queste sole premesse – si possa assegnare una probabilità maggiore all’una o all’altra; anzi, la retorica essendo basata sul linguaggio, ha una relazione più immediata con l’esperienza ordinaria dell’essere umano, mentre la scienza ci costringe a passare per la mediazione numerica in quasi tutte le sue fasi, come esposto già più volte.
Molti scienziati di ampie vedute saranno forse pronti ad accettare questa conclusione ed io non ho per loro argomenti ulteriori; sarebbe davvero bello poter trovare una confutazione anche per questo probabilismo sperimentale e guarire in tal modo dal trotzkismo epistemologico, ma è questa una medicina di cui io non conosco la ricetta. Vi sono tuttavia scienziati trotzkisti non solo per professione ma anche per personali credenze e soprattutto vi sono filosofi che hanno voluto fare del trotzkismo epistemologico l’unica forma di conoscenza autorizzata (come tutti i comitati centrali dei partiti comunisti, anche i trotzkisti epistemologici amano proibire prodotti e la morte per fame di larghe porzioni degli sfortunati popoli che capitino sotto le loro grinfie li impensierisce ben poco). Sulla scorta del primo Wittgenstein, essi argomenteranno che le consuete questioni della filosofia, e in particolare il concetto di “verità”, non avrebbero alcun significato logico ma sarebbero solamente giochi di linguaggio. Da tali premesse, l’unica conoscenza rimarrebbe davvero quella sperimentale, ma non in quanto produttrice di induzioni e dunque di argomenti persuasivi, bensì in quanto unica forma coerente di ragionamento. In tale accezione, la conoscenza è davvero solo la collezione degli esperimenti riusciti e falliti. Essa si esprimerebbe solo nella forma delle proposizioni se farai x sperimenterai y e dunque sarebbe del tutto identificabile con il potere, perché specificherà le condizioni (le x) e l’estensione (l’insieme delle y) di ciò che l’uomo può produrre nel mondo. In un certo senso, anche i probabilisti accettano questa dottrina, perché mentre essi sottopongono le loro teorie all’ipoteca della probabilità e dell’induzione, essi accolgono per lo meno il significato immediato dell’esperimento (se farai otterrai) come conoscenza certa.
Ne consegue che il significato metafisico dell’esperimento (e dunque della scienza) è la tecnocrazia: non esiste o è perennemente irraggiungibile dunque priva di pretese coercitive una verità esterna all’uomo, mentre rimane come unica certezza il potere dell’uomo di manipolare il mondo in diversi modi. Le teorie scientifiche che interpretano gli esperimenti richiedono e prevedono sempre nuovi esperimenti, cosicché i poteri dell’uomo sul mondo si accrescono costantemente e non esiste argomento contrario a questo accrescimento; ciò agisce in sintonia con l’habitus socio-psicologico degli scienziati descritto da Ted Kaczynski, facendo sì che se una cosa si può fare si farà e su larga scala. è inutile discutere di bioetica, di etica delle armi o anche di politica ambientale, perché il sistema tutto della scienza, dai suoi fondamenti metafisici alla psicologia dei suoi membri, tende ad un accrescimento del potere che prescinde da qualsiasi giudizio etico – considerando l’etica alla stregua della metafisica come un errore logico. Tali discussioni hanno valore dialettico e non dimostrativo, perché partono dai presupposti della visione scientifica del mondo e, dal suo interno, cercano di argomentare contro questo o quello; in tal modo, esse sono sconfitte in partenza, perché non vi è modo, dall’interno del sistema, di fermare in alcun punto il sistema. Se vuoi Galileo ti devi tenere i bambini transessuali. Se vuoi l’antibiotico, ti devi tenere la bomba atomica. Perché? Perché possiamo.
A questo sistema noi possiamo opporci solo ribadendo e fondando la necessità di una verità che prescinda dal controllo del soggetto, indisponibile al potere. Inoltre, dobbiamo salvare il linguaggio dalla matematica e l’esperienza dall’esperimento: la verità non deve scaturire dalla misura del potere umano, ma dall’espressione logica dell’esperienza, questa intesa come momento passivo del soggetto rispetto all’oggetto. Tornando al sillogismo accennato sopra: se la conoscenza è potere, e la verità è conoscenza fatta astrazione dal soggetto, ma il potere non può essere astratto dal soggetto, allora una delle premesse è assurda. Che il potere o controllo o esperimento presuppongano il soggetto è stato dimostrato. Negare che la verità sia il contenuto della conoscenza significherebbe privare il termine “conoscenza” di significato (come la distinguiamo dall’opinione o dalla fantasia altrimenti?). Se ci priviamo della conoscenza, cadiamo nello scetticismo estremo, che è autocontraddittorio. Dunque deve esistere una conoscenza, quindi esiste la verità. L’ultima premessa rimanente è scire est posse, e questa dobbiamo negare pena cadere nell’assurdo. L’esperimento è un costrutto umano che non ha alcun legame con l’esperienza e la verità, che non parla se non viene fatto parlare dalla ragione umana per mezzo di teorie. Conclusione: la scienza sperimentale non ha, in quanto sperimentale, alcun legame con la verità. Le sue teorie, in quanto teorie, possono avere legami con la verità, ma essendo formulate numericamente tali legami debbono essere dimostrati dimostrando che la realtà è costituzionalmente matematizzata o debbono essere accettate come forme assai mediate di conoscenza rispetto alla conoscenza formulata nel linguaggio dalla filosofia.
[Continua]
Scienza, sacramento, magia – Lo scienziato ride del prete che innalza il pane ed il vino e dice hoc est enim etc., chiedendogli se ha studiato così a lungo perché voleva fare quella magia. Così lo scettico parla indifferentemente di magie e pensiero magico per i miracoli della Bibbia o delle vite dei santi e per i grimori degli alchimisti. Essi non colgono l’ironia della loro posizione, di chi cioè utilizza il termine magia per le azioni altrui mentre crede fermamente nel potere di una disciplina, la scienza, che deve proprio a ciò che anticamente si chiamava magia la sua nascita. Gli storici della religione attuali e gli antropologi, con la loro consueta correttezza politica, ci dicono che il termine “magia” è privo di un significato proprio ed oggettivo; esso si definisce nell’uso, avendo la funzione eminentemente pragmatica di screditare e marginalizzare alcune pratiche a vantaggio di altre. Non vi sarebbe differenza fra pratiche religiose e magiche, secondo costoro, se non nella stima che le une e le altre godono presso una certa comunità umana. Essi così fanno torto ai nostri antenati, che spesso hanno motivato le loro distinzioni in maniera razionale e convincente, come nel caso in esame della magia. La loro concezione della magia era ben distinta da quella del sacramento e fece da preludio, molto più che la discussione su Aristotele di Filopono e Galilei, alla scienza moderna. Galilei, come ho detto, pensava ancora ad un sapere teorico e filosofico, in linea con gli aristotelici. I maghi, gli alchimisti e i ciarlatani del Medioevo e del Rinascimento erano invece veramente opposti al sapere dominante teologico-filosofico: essi sono i veri antenati degli scienziati, checché ne pensi lo scettico moderno, che vuole ridurre tutto ciò cui lui non crede a superstizione.
Nel vecchio mondo, la magia era definita come un potere di influenzare la natura scaturito dalla conoscenza dei legami occulti che la attraversano. Il presupposto teorico di tali pratiche è la regolarità della natura. I maghi credevano cioè che la natura fosse un insieme di fenomeni fra loro connessi da rapporti causali, i quali si innescavano in maniera non aleatoria ma coerente nel tempo e nello spazio: quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius. Il concetto di “legge naturale”, così importante per la scienza moderna, non è altro che il portato di questa tradizione di pensiero magico. La nozione va però distinta dalla regolarità del cosmo argomentata da filosofi e teologi: anche questi – non tutti ma alcuni a partire dagli assunti comuni della disciplina – trattavano la natura come un insieme coerente di relazioni causali, talvolta addirittura di causazioni necessarie. A distinguere filosofi e maghi era la convinzione dei primi dell’ordine gerarchico del cosmo, la gradatio entium, che imponeva un ragionamento sulle differenze degli enti creati. Al contrario, il motto dei maghi è proprio il come sopra così sotto, come sotto così sopra testé citato, un principio evidentemente sovversivo di ogni gerarchia, come sovversivo era il loro ragionamento sulle analogie fra gli enti. Fu infatti da questi ragionamenti analogici tipici della magia che si corroborò l’idea dell’universalità dei meccanismi naturali (perché di meccanismi bisogna parlare nel caso di causazioni concepite in questo modo), cioè l’idea che le stesse identiche relazioni causali si inneschino infallibilmente in ogni contrada della realtà materiale, dai cieli dei cieli agli abissi sotto la terra, da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra. Questa idea, contemplata sotto la specie della totalità, conduce ad una visione della natura come sistema indipendente dall’autorità trascendente, acefalo e dunque autocefalo. è dunque dalle leggi della magia che discendono il deismo e l’ateismo, che postulano (o negano) una divinità-orologiaio, che costruisce il meccanismo e carica la molla e nel settimo giorno della Storia si riposa. E così, per lo stupore dello scientista moderno, la magia esclude assolutamente il miracolo – le due idee sono in una contraddizione insanabile. Nella magia, il cosmo non è già più Creato ma Natura, gode cioè di una sua autonomia meccanica e dalla legge morale e dalla sovranità divina. Questo è il motivo per cui la Chiesa l’ha sempre avversata.
Più ancora di questo presupposto teorico, la magia è caratterizzata dal suo metodo di ricerca basato sulle applicazioni immediate della conoscenza, sulla volontà di produrre effetti. Se il presupposto teorico della regolarità universale poteva venire alla scienza moderna anche dalla filosofia (con qualche aggiustamento), questo orientamento all’azione è tipico della magia e la qualifica come la vera antenata della scienza sperimentale, dato che quest’ultima, come abbiamo visto nel secondo paragrafo, si identifica molto più con lo scire est posse di Bacone che non con le sensate esperienze e necessarie dimostrazioni di Galileo e Aristotele. La magia, unendo l’indipendenza della materia dalla metafisica con la finalità produttiva della conoscenza umana, fu una delle poche forme di tecnocrazia nell’età teocratica.
In quanto finalizzata all’azione, la magia introduceva fra gli uomini una disparità di potere: il mago può cose che il profano non può. è questa disparità che disturba il nostro scettico (che naturalmente è anche un convinto democratico) e gli fa accomunare la magia al sacramento. Egli non si avvede che la disparità di potere introdotta dalla magia ha natura affatto diversa da quelle del sacramento e del miracolo, perché egli non coglie la differenza fra occulto e misterioso. La disparità di potere della magia è un risultato dell’occulto, mentre quella del sacramento del mistero. L’occulto è una mera differenza di conoscenza: i legami della Natura, le leggi naturali, non sarebbero immediatamente ovvi, cioè evidenti, a tutti gli uomini; alcuni uomini li conoscono meglio di altri, dunque alcuni uomini possono più di altri per motivi che, agli altri, restano nascosti, cioè occulti. Se gli venissero detti, non sarebbero più occulti e anche gli altri uomini saprebbero e potrebbero. Questo è il motivo per cui le dottrine magiche convivevano o implicavano spesso anche dottrine soteriologiche di carattere gnostico, nel senso che la differenza fra salvati e dannati ammontava ad una differenza di conoscenza. Questa intonazione etica della magia sopravvive oggi nel trotzkismo epistomologico – ad onta del nostro scettico – nella forma dell’autorità dovuta agli esperti e della funzione nomotetica della scienza rispetto alla politica: come la vicenda del covis ha dimostrato, gli scienziati reclamano per sé una autorità etica e politica dalla quale escludono recisamente sia il politico che in generale ogni profano della loro materia, sulla base della complessità della stessa; ora questa complessità non è altro che l’occulta conoscenza dei legami fra le cose che solo l’esperto ha potuto carpire. Ancora una volta, tecnocrazia.
Anche il sacramento, come la magia, è una forma di potere in quanto è finalizzato a produrre un effetto, un’azione nel mondo. Tuttavia nel sacramento la disparità di potere, cioè il sacerdozio, non è giustificato da una disparità di conoscenza (si pensi che è solo con Trento che nascono i seminari per i sacerdoti, ennesima prova del modernismo di Trento), ma da una disparità di autorità. Ma cos’è l’autorità? L’autorità è il senso del dovere di uno o più soggetti verso un oggetto, dovere specificato come dovere di fiducia rispetto all’intelletto del soggetto e dovere di obbedienza rispetto alla volontà del soggetto. In breve: autorità è la potenza di qualcosa o qualcuno di imporre ad altri una credenza o un’azione. Dalla definizione è chiaro che l’autorità esiste solo come relazione, perché implica un oggetto e un soggetto. Si potrebbe obiettare che l’autorità, pur esistendo nella relazione, è motivata nel soggetto che obbedisce da alcuni caratteri dell’oggetto cui obbedire, sicché essa sarebbe riducibile ad una caratteristica dell’oggetto soltanto e non ad una relazione. Ciò non è corretto perché l’autorità diviene operativa solo nel momento in cui ci sia un soggetto che riconosca nei caratteri dell’oggetto una ragione sufficiente di obbedienza, senza il quale soggetto (dunque al di fuori della relazione) questi caratteri non sarebbero fonte di autorità. Tale intrinseca relazionalità dell’autorità è correttamente riconosciuta dal dogma ecclesiastico dell’ex opere operato che riduce l’autorità proprio alla sua componente essenziale, la relazione, sfrondandola da ogni possibile confusione naturalistica, confusione cioè fra alcune caratteristiche di un oggetto e il dovere di obbedienza che ad esso è dovuto, come se le caratteristiche di per sé necessitassero l’obbedienza. Il sacerdote è tale in quanto riconosciuto da Dio come tale, non per alcun suo merito personale.
Dunque l’autorità è relazione e la relazione presuppone delle persone (cioè un soggetto e un oggetto che abbiano non solo un’essenza o un intelletto ma anche una volontà, senza la quale non vi potrebbe essere né esercizio della potenza a far obbedire, né obbedienza – cioè conformazione della propria volontà a quella d’un altro). Poiché l’autorità è potere che presuppone le persone, esso è potere personale e dunque personalizzato. è potere personale perché è potere di una persona, ed è personalizzato perché, essendo di una persona, è possibile agli altri entrarvi in relazione nei modi in cui si entra in relazione con una persona.
Poiché l’autorità è una specie della relazione, essa ha come carattere proprio il mistero. Il mistero e l’occulto appartengono entrambi al genere dello sconosciuto, ma mentre l’occulto è ciò che è sconosciuto perché non ovvio a tutti, ma comunque conoscibile, il mistero è ciò che è sconosciuto perché non è conoscibile. Non essere conoscibile equivale ad essere trascendente o altro rispetto all’intelletto. Abbiamo detto che la relazione presuppone la persona, che a sua volta presuppone la volontà. Ora, la volontà è una funzione eterogenea e difforme dall’intelletto, che dunque lo trascende. L’intelletto infatti lavora sempre ex post e tende alla necessità, mentre la volontà lavora in altro modo per altri scopi. Perciò la volontà è in sé misteriosa; ma essa è anche un mistero ex post se inserita nella relazione, poiché nella relazione è in gioco la volontà di un altro, che l’intelletto stesso non può percepire neppure ex post ma solo congetturare da indizi materiali.
Il legame con il mistero è proprio di ogni relazione, purché non intesa come la categoria aristotelica ma nel senso di relazione fra persone. Così partecipano del mistero non solo l’autorità ma anche l’amore, l’odio, etc. Un altro corollario dell’analisi testé proposta è che il sacramento a differenza della magia, come il mistero a differenza dell’occulto, può tranquillamente essere pubblico: mentre il mistero, reso pubblico, non solo mantiene ma rinforza il suo carattere proprio di mistero per mezzo del pubblico riconoscimento della sua inconoscibilità, l’occulto cesserebbe di esistere se reso pubblico. Di più, nel momento in cui il mistero procede dalla relazione (vi sono altri tipi di mistero infatti), esso esige la pubblicità. Questa è la ragione per cui i misteri dei cristiani, fondati come sono sulla relazione, sono tutti pubblici e manifesti e la Chiesa è un corpo visibile nel mondo, mentre gli adepti della magia (e della scienza) tendono a formare massonerie e associazioni segrete o comunque non prontamente accessibili a tutti.
Quanto detto finora riguardo al carattere personalizzato e personalistico del sacramento sembrerebbe procedere soprattutto dalla distribuzione del potere sacramentale rispetto ai soggetti che lo esercitano, in altre parole dal suo legame col sacerdozio, in parallelo a come il potere magico e quello scientifico si distribuiscono sulla base della conoscenza, in altre parole il loro legame con la gnosi. Vorrei però argomentare che una analoga differenza fra la magia e il sacramento esista anche rispetto all’oggetto del loro potere, vale a dire che essi agiscono su una differente visione dei rapporti causali del mondo, delle quali quella della magia – come già detto – è caratterizzata dall’automatismo e dall’uniformità, mentre quella del sacramento è caratterizzata dalla personalità, cioè dall’intenzionalità.
Che il potere insito nel sacramento non derivi dalla conoscenza è chiaro, in quanto le trasformazioni operate dai sacramenti non richiedono la conoscenza dei loro meccanismi al sacerdote che li compie. Essi neppure emergono dalle proprietà della materia che viene manipolata, talché il sacerdote possa, conoscendone queste proprietà, estendere per analogia il potere altrove: non è per qualche attributo del pane e del vino che essi divengono Corpo e Sangue di Cristo, né è grazie a qualcosa di proprio all’acqua che essa può perdonare i peccati del catecumeno. A ben vedere, il funzionamento del sacramento è proprio opposto: non è che vi sia un meccanismo non conoscibile, è che quell’atto non può essere il frutto di un meccanismo in quanto consiste precisamente nel sottrarre porzioni di mondo al meccanismo; questa porzione di acqua non è più acqua normale, è santa, separata, difforme, disomogenea rispetto all’altra acqua; questo pezzo di pane non è più pane etc. Questa dinamica sacramentale è coerente con altri fenomeni della religione cristiana, come il miracolo e il pellegrinaggio. Il miracolo consiste nella medesima sottrazione di una porzione particolare – individuata nel tempo e nello spazio – di realtà ai meccanismi propri della realtà ordinaria. Il pellegrinaggio ha senso solo se si crede che una certa porzione spazialmente individuata della realtà sia ontologicamente diversa dalle altre; che la realtà non sia cioè spazialmente omogenea.
Il moderno, nutrito di filosofia hegelista anche a propria insaputa, obietterà che, definito in tal modo, il sacramento presuppone il meccanicismo proprio in quanto ne è la negazione dialettica, in quanto cioè il significato del sacramento consiste precisamente nel porre un limite al meccanicismo, senza che, fuori da questo limite, il meccanicismo venga negato. Senza meccanicismo non avrebbe senso sottrarre qualcosa al meccanicismo. L’obiezione non è priva di fondamento, perché punta il dito su uno dei problemi fondamentali della teologia cristiana (che è insito in ogni altra teologia ma che solo il cattolicesimo, in quanto vera religione, si è posto autenticamente): il rapporto fra il naturale ed il soprannaturale, fra Creazione e Redenzione, fra Natura e Grazia, fra ragione e fede, fra filosofia e teologia, fra cattolicità e predestinazione, etc. Per porre la questione in poche parole, se Dio è misericordioso e creatore, come si giustifica la necessità della Chiesa, con tutto ciò che Essa contiene (sacramenti, miracoli, etc)? Non è mio compito né ho le capacità per risolvere qui questo problema, cercherò solamente di rispondere all’obiezione del nostro dialettico. Concediamo che il sacramento presuppone uno stato ordinario delle cose, chiamiamolo natura, cui sottrarsi. Non è tuttavia affatto detto che questa natura debba essere concepita in termini meccanicistici; non è nemmeno detto che essa debba disporre del minimo grado di indipendenza ontologica dalla divinità, come dimostrato dalla soluzione islamica asciarita del problema. L’asciarismo suppone una realtà continuamente creata, ordinata e sostenuta dalla divinità, priva in se stessa di qualsiasi legame con l’essere. In tale realtà il miracolo e il sacramento sarebbero un’altra azione di Dio, distinta magari per scopo (la salvezza, o la salvezza dell’anima in contrasto alla salvezza del corpo) o per distribuzione (sacerdozio), ma non per essenza dai fenomeni naturali.
Presi in sé dunque né il sacramento esclude il meccanicismo, né il meccanicismo esclude il sacramento. Su questa base ebbero un certo successo in età moderna i tentativi di accordare la religione con la scienza newtoniana. D’altra parte, il meccanicismo newtoniano è, fra le possibili concezioni della natura, quella che le assegna la maggior indipendenza ontologica, aprendo dunque le porte alla possibilità di pensare la natura senza Dio ed escludendo, almeno su un piano persuasivo o retorico sebbene non logico, la possibilità del miracolo. Anche nel mondo newtoniano però una metafisica che contempli il miracolo sovverte il significato di quel mondo, poiché non solo sotto la necessità della natura si nasconde, sempre pronta a balzar fuori, l’autorità arbitraria della soprannatura, ma soprattutto, stando così le cose, la soprannatura diviene il mondo più autentico, del quale la natura sarebbe solo una rappresentazione provvisoria. La natura necessitata stessa procederebbe dall’autorità personale della divinità, essa sarebbe soltanto un altro miracolo fra gli altri.
Estendendo il proprio principio di uniformità per mezzo delle nuove scoperte e leggi naturali a sempre nuovi fenomeni e reami del mondo, la scienza ne scaccia progressivamente la personalità, siccome scaccia il principio di autorità proprio del sacramento e del miracolo. In tal modo il mondo e la natura perdono il loro significato per l’uomo, in quanto l’uomo perde la capacità di comunicare con essi, privi ormai come sono di un potere personalizzato: chi scrive più poesie sulla luna, dopo il 1969? Quel che è peggio, il principio tende ad estendere se stesso senza che vi sia un argomento ad esso opposto per fermarlo: rapidamente, dopo aver svuotato la natura di vita e libertà, facendone un freddo deserto, esso s’imprende a svuotare l’uomo della propria stessa personalità. Se l’uomo è parte della natura, allora anch’esso è meccanismo, necessità senza libertà e miracolo. Così la scienza partorisce la sua prole blasfema: psicologia, sociologia, economia, neuroscienze, evoluzionismo e filosofie nichiliste, con la doppia funzione di demoralizzare e depoliticizzare l’uomo. Demoralizzarlo, perché lo si priva del libero arbitrio, giudicato un’illusione, mentre si rimuove la sua possibilità di entrare in relazione con i suoi simili, maschere dietro cui si celano meccanismi biologici, psicologici o sociali; depoliticizzarlo perché la collettività stessa, ridotta a meccanismo, non è più il luogo della discussione morale (già peraltro svuotata) ma diviene analoga a un qualsiasi fenomeno naturale da incanalare e controllare. Da qui le varie tecnocrazie moderne. La somma delle decisioni razionali della scienza produce il risultato sommamente irrazionale di proclamare la ragione che ha prodotto il risultato stesso come irrazionale. La scienza torna magia. In effetto, queste stesse pagine non si sarebbero potute scrivere all’epoca di Newton, perché solo una volta giunta alla meccanizzazione dell’uomo stesso la scienza rivela finalmente la sua vera natura di processo completamente operativo, privo di qualsiasi contenuto epistemologico.
Al contrario, il sacramento umanizza la natura, le dà un significato propriamente umano e trascendente il suo mero funzionamento materiale. Esporrò in che modo ciò avvenga in maniera meno rigorosa di quanto fatto finora, avvalendomi di alcune metafore. Tali metafore non sono di mia invenzione ma sono tratte dai testi scientifici delle diverse epoche, diverse anche perché ciascuna possedeva una propria metafora preferita per riferirsi alla somma delle esperienze del mondo, cioè alla natura. I più grandi pensatori dell’antichità, Platone e Aristotele, sono concordi nel definire il cosmo come un essere vivente, un animale o un dio, immagine che ebbe immensa fortuna nei secoli successivi. Nel far ciò, essi certo già uniformavano e deumanizzavano le precedenti visioni politeistiche o addirittura animistiche, che non vedevano l’unitarietà del tutto e dunque umanizzavano ogni fenomeno. E tuttavia, essi stavano anche dando alla natura un carattere vitale che la apriva alla relazione con l’uomo, non attraverso i mezzi della religione ma con la edificante contemplazione del filosofo.
La cristianità e il medioevo occidentale (latino ma anche greco) vedevano il mondo come un libro. Ciò ne faceva una creatura di linguaggio, cosa alquanto appropriata per ciò che era stato creato per mezzo del Verbo. Questa metafora cattura perfettamente il rapporto complesso dei medievali con il loro mondo e il loro modo raffinato di umanizzarlo; facendone libro, essi scongiuravano ogni tipo di politeismo o panteismo, collocando la personalità e l’autorità al di là del mondo stesso; ma il fatto che la membrana di questo al di là fosse concepita come linguaggio – ciò che c’è di più proprio all’uomo e connesso alla personalità e alla relazione – riportava il mondo saldamente nella vita degli uomini, allo stesso tempo riempiendo di dignità e significato l’esistenza umana costituita di analoghe regole (linguaggio, relazione, autorità, persona). Il mondo poteva essere anche studiato con la ragione, ma non la ragione dell’aritmetica, bensì le ragioni della grammatica, della retorica, della dialettica – ossia dello studio dei testi e del linguaggio. Questa fu l’unica vera sintesi di “cultura scientifica” e “cultura umanistica” e fu anche l’unica scienza naturale il cui mezzo e metodo, il linguaggio naturale umano, fosse conforme al suo oggetto (l’esperienza). Che Galilei abbia usato la medesima metafora è un’altra conferma del suo carattere anfibio, fra il mondo medievale e quello moderno, che già abbiamo rilevato nel paragrafo secondo.
Per la modernità newtoniana, il mondo è meccanismo; e non a caso si parla di grande orologiaio o grande architetto, se è pur vero che la casa stessa può diventare una macchina per abitare. I caratteri di questa visione sono stati già sufficientemente descritti, mi preme solo qui notare quanto queste tre metafore, l’animale il libro la macchina, siano potenti per gli uomini di ciascuna epoca, tanto da arrivare a definire ciascuna delle altre per mezzo della propria. Così già Cartesio considerava i corpi degli animali come meccanismi e la Riforma e la modernità arrivarono in Europa solo grazie alla meccanizzazione del libro, non solo nel senso della stampa di Gutenberg, ma soprattutto perché la Riforma propagandò un nuovo modo di leggere il Libro, sempre più meccanico. Platone aveva relativamente poca esperienza di macchine, ma non è forse lui che nel Fedro paragona il libro ben scritto ad un animale, con le sue diverse membra e con gli argomenti che si dipanano regolarmente come le venature d’una foglia o i nervi di un animale? Per converso, il bestiario medievale trasforma l’animale in un simbolo, una lettera o una parola cioè nel grande libro della natura, capace di comunicare all’uomo qualcosa di se stesso; l’uomo stesso si fa libro, o altrimenti non possiamo capire quel primo monumento della letteratura medievale, le Confessioni di Agostino, e il più importante genere letterario di quell’epoca davvero illuminata, l’agiografia. Così l’uomo moderno diviene sempre più macchina, e l’uomo antico si concepiva primariamente come animale.
Come è già stato notato, la teoria quantistica ha mutato l’epistemologia degli scienziati – in realtà rivelando ciò che già era valido ma non notato dai filosofi precedenti. Per tal motivo, da un certo punto di vista la metafora della macchina è ancora viva e vegeta nella coscienza dell’uomo contemporaneo e riveste ancora un ruolo fondante della sua percezione della natura, di se stesso, degli animali e dei libri. D’altra parte, essa ha perso, come l’epistemologia della scienza, la concretezza e oggettività che nell’epoca positivista ancora aveva. Qualcosa è di certo cambiato. L’immagine della macchina, presa sul serio, implica un riconoscimento forte dell’oggettività naturale, con annessi problemi riguardo il libero arbitrio e la necessità universale, che tanto impegnarono i filosofi moderni fino a Kant. I metodi statistici e la rinuncia ad una epistemologia della verità indeboliscono di molto l’oggettività della natura, fino ad eliminarla. In tal modo è lasciato campo libero alle potenzialità applicative della scienza. In un certo senso, la nostra epoca ci priva di ogni metafora sulla natura, perché ci priva così della natura come dell’uomo, e dell’animale, e del libro. Tutto si può perché nulla è.
Nota: "controllo" in chimica è anche il termine tecnico per indicare il campione su cui non si esegue alcuna prova, ossia su cui non si fa l'esperimento, onde verificare se l'"outputs" dell'esperimento sia frutto degli interventi degli sperimentatori o un fatto spontaneo.