Te(cn)ocrazia
Definizione.
Teocrazia è quando l’ordine del mondo non è nella disponibilità dell’uomo.
Tecnocrazia è quando l’ordine del mondo è nella disponibilità dell’uomo.
Etimo e significato.
Il secondo componente di questi termini, κράτος, fa riferimento al potere nella sua forma più elementare. Perciò i termini sono forse fuorvianti: la questione non è qui di chi detenga il potere, né di come esso venga detenuto, ma di cosa sia il potere. La domanda del chi è la domanda della politica, anche nei suoi risvolti più machiavellici e quotidiani. Si parla per esempio di “democrazia” quando il potere è effettivamente nelle mani della massa o di “dittatura del proletariato”, “ierocrazia” o “gerontocrazia” perché un certo gruppo o una certa persona detiene il potere, nella sua forma elementare di poter decidere e veder le proprie decisioni avverarsi. Vi è poi la questione del come, vale a dire delle forme istituzionali che il potere assume, la quale si esprime per lo più con il suffisso ἀρχή, e dunque avremo il potere suddiviso numericamente fra una (monarchia), poche (oligarchia), molte (pleistarchia) o tutte, vale a dire nessuna persona (anarchia). L’anarchia non è infatti l’assenza del potere, che sarebbe impossibile, ma l’assenza di una forma del potere.
Qui però la questione è la natura stessa del potere, talché il suffisso -crazìa è in un certo senso giusto e in un certo senso sbagliato. Giusto nella misura in cui ci occupiamo della natura del potere preso in sé, come dire prima della sua specificazione nella concretezza politica. Sarebbe tuttavia impossibile parlare di una tal cosa senza metterla in alcuna relazione con altro, perché cosa significa “il potere in sé” cioè al di fuori di ogni relazione politica? Nulla, se non un concetto vuoto. Per definire dobbiamo in qualche modo individuare differenze - cioè negazioni - e per comprendere dobbiamo sempre mettere in relazione le cause con gli effetti. Quindi la definizione e la comprensione del potere in sé è sempre l’attribuzione del potere ad una causa e l’individuazione del suo limite. In questo senso sarebbe forse più corretto parlare, nel nostro caso, di tearchia e tecnarchia, adottando il suffisso non nel senso di una ἀρχή-carica, come nel caso di monarchia e oligarchia, ma di una ἀρχή-origine.
Si noterà la vaghezza delle definizioni date, soprattutto per quanto concerne il modulo sintattico “è quando”. Con ciò ho voluto lasciare indeterminata una questione, cioè la veridicità delle due categorie. In un primo momento infatti intendo definirle nella loro logica interna e reciproca contraddizione. Ci si occupa dunque del potere in sé, cioè della sua origine e dei suoi limiti prima di ogni specificazione politica, ma non si distingue - almeno in un primo momento - la natura ideologica o reale delle due definizioni di potere in sé. Quell' “è quando” vuole comprendere sia la possibilità che entrambe le categorie siano vere nel loro proprio ambito, sia invece che una sola o nessuna sia vera epperò entrambe siano state credute come ideologie e abbiano prodotto risultati storici diversi.
Venendo ai prefissi, è opportuno chiarire in quale senso esteso essi siano interpretati in questa sede. Con il prefisso θεός non si intende né un riferimento specifico al Dio monoteistico della religione cristiana né un riferimento generico alle divinità pagane, dotate di una personalità e di una storia (il mito) che le contraddistingue. “dio” è, nella presente accezione, ogni forza numinosa o trascendente, cioè ogni forza che risulti incomprensibile e indisponibile alla decisione umana, autonoma. Sono “dèi” in questo senso naturalmente la Provvidenza delle religioni monoteistiche, ma anche il Fato di Omero, il Dao dei cinesi, la folla di concetti cosmologici degli indiani e, forse limitatamente, le leggi del mercato in ottica paleo-liberale o il dato scientifico in certe accezioni positivistiche (ma su questo ci sarà da discutere dopo).
Di contro al “dio”, la τέχνη è genericamente l’attività umana, ma forse bisogna specificare che non qualsiasi attività umana si contrappone al “dio” nel senso in cui lo fa τέχνη, bensì una attività che comprenda un certo grado di deliberazione e autonomia. Dovremmo dunque definire τέχνη la manipolazione dell’ordine del mondo da parte dell’uomo deliberata a priori e che trascura o consapevolmente non presuppone alcuna forza che possa contrapporsi a se stessa, o almeno nessuna forza non umana.
Infine richiede qualche chiarimento la parola “ordine del mondo”. Anche questa è stata scelta perché piuttosto generica; la definizione non vuole già dare per assodato che un “ordine” nel mondo ci sia, ma solo indicare il come le cose stanno. In pratica, con “ordine del mondo” voglio intendere i problemi in senso etimologico, ciò che si para davanti (προ-βάλλω) allo sguardo (προ-βλέπω) dell’uomo. L’essere umano incontra le cose, intese nel senso più generico possibile, e può decidere che queste cose sono disponibili alla sua decisione senza ripercussioni o che c’è qualcosa d’altro, un attrito o un limite, da tenere in considerazione. Il motivo che mi spinge a mantenere generico l’ambito d’azione diverrà chiaro con quanto segue: le due categorie si possono applicare e di fatto sono state applicate a quasi ogni ambito della vita umana, dalla politica in senso stretto all’economia al sesso finanche al corpo e all’identità stessa degli esseri umani.
Ricapitolando: teocrazia è la condizione o l’ideologia che presuppone nelle cose una presenza pari o sovraordinata alla volontà umana; tecnocrazia è la condizione o l’ideologia che non presuppone questa presenza ma eleva la deliberata azione umana a principio del tutto autonomo della realtà.
Poiché la definizione non pertiene le forme del potere né il tipo di personale politico, ne consegue che ogni forma politica e ogni tipo di personale politico può presentarsi, almeno teoricamente, sia in teocrazia che in tecnocrazia. Prendiamo come esempio due forme politiche tradizionali come la democrazia e la monarchia. Si dà il caso che nella storia entrambe si siano presentate e teocraticamente e tecnocraticamente. Queste due categorie sono precisamente ciò che ci permette di distinguere la nostra forma politica democratica da quella delle πόλεις greche e dei comuni italiani. Nella nostra democrazia si votano formazioni politiche (i partiti et similia) che hanno la pretesa di manipolare la realtà dei rapporti sociali in vista di una certa idea di comunità politica. Si sceglie, almeno in teoria, un programma da proiettarsi poi nella realtà. Non così la democrazia ateniese o il comune italiano medioevale, come dimostra il carattere ancora carismatico di molte cariche e le pratiche, spesso attestate, di elezione per sorteggio. In verità, nella coscienza dell’uomo medioevale come dell’ateniese la divinità partecipava realmente alle elezioni. Non si trattava, in molti casi, di scegliere un corso politico, ma di scoprire il volere delle divinità. Anche l’autentica lotta politica non verteva sui massimi sistemi o su una riorganizzazione fondamentale della realtà sociale, bensì sull’accaparramento di posti di potere, sull’amministrazione dell’esistente o su singole decisioni puntuali in risposta a problemi (v. sotto). Eventuali novità non potevano essere introdotte se non presentandole come la riscoperta d’un uso più antico obliato per il gran passar del tempo. A confronto con questo stato di cose, la nostra democrazia, non diversamente che qualsiasi altro regime dell’età moderna, acquista caratteri schiettamente totalitari.
Simile discorso può farsi per la monarchia, la quale ha conosciuto anche una incarnazione teocncratica nel dispotismo illuminato del diciottesimo secolo e nelle dittature novecentesche. In questi regimi, il monarca è dotato di poteri assoluti non tanto e non solo perché manchino delle istituzioni antagonistiche alla corona, cioè non a causa della forma di stato, bensì perché manca un antagonismo da parte dei sudditi, i quali accettano che il monarca abbia l’autorità di prescrivere ogni dettaglio della loro vita, mancando la coscienza di un ordine trascendente l’agire umano da opporre all’agire del sovrano.
Non sfuggirà al lettore che, per quanto ogni combinazione di te(cn)ocrazia e forma di governo sia teoricamente possibile, le epoche teocratiche (v. sotto) hanno per lo più vissuto in monarchia o aristocrazia, mentre le epoche tecnocratiche si sono mosse, apparentemente in maniera inesorabile, verso la democrazia. In effetti, quale forma di governo si attaglia di più alla teocrazia se non la monarchia, che sembra presupporre criteri sottratti alla disponibilità dell’uomo (il sangue, il caso cioè la Provvidenza o il destino, la vittoria) nella selezione del personale politico? Di converso, la convinzione di poter manipolare a piacimento la realtà e la vita delle persone condurrà presumibilmente alla richiesta da parte di ogni persona di avere la sua porzione di questo potere, cosicché la democrazia sembrerebbe la forma più naturale in cui la tecnocrazia ricade. E tuttavia le eccezioni, come visto, esistono e bisogna tenerne conto: certo la monarchia (e l’aristocrazia) hanno una qualche affinità con la teocrazia mentre la democrazia sembra essere il risultato del diffondersi della tecnocrazia, ma non vi è un legame necessario e deduttivo fra questi concetti, bensì un per lo più (come direbbe il Filosofo).
Storia del termine.
Dal punto di vista storico, la teocrazia è stata l’ideologia prevalente dell’umanità, sin dalle prime testimonianze e in tutte le sue variazioni geografiche. L’eccezione è l’Europa del Rinascimento e le comunità politiche da essa nel tempo scaturite.
Sarebbe inutile qui elencare ed esaminare tutte le coniugazioni particolari, tutti gli “dèi”, nei quali l’ideologia teocratica si è istanziata nel corso dei secoli e nelle distanze del mondo. Si deve piuttosto rispondere ad una possibile obiezione alle nostre categorie: come è possibile, data la tua descrizione dell’ideologia teocratica, che vi sia azione e dunque mutamento politico? Poiché noi osserviamo nei mondi antichi mutamento ed azione politica, ne consegue che la tua categorizzazione è falsa.
Nel rispondere a questa obiezione, facciamo appello alle qualificazioni della τέχνη rispetto alla generica azione umana presentate più sopra e al negativo nella definizione di tecnocrazia, ossia all’assenza di una forza altra rispetto all’uomo.
Prendiamo l’azione politica nell’antichità e nel medioevo. La prima caratteristica che salta all’occhio è la sua reattività, vale a dire la tendenza a legiferare soprattutto, in generale ad agire, solo in risposta ad un problema. Quasi del tutto assente dal panorama politico mondiale prima del Rinascimento è la pianificazione, la deliberazione a priori dell’azione politica. I meccanismi della vita sociale ordinaria sono assunti come dati immutabili e tradizionali, mentre eventuali atti straordinari avvengono solo come misure circostanziate in rapporto ad un problema che i meccanismi ordinari non riescono a risolvere. Il diritto si basa sulla massa sedimentaria delle pratiche o addirittura delle deliberazioni precedenti, mentre per esempio l’imperatore romano legifera unicamente in risposta a problemi e petizioni che gli vengono presentati. Questa reattività della politica è proprio il precipitato della concezione teocratica del mondo, per cui l’uomo non è “da solo” nella realtà, ma si trova costantemente in relazione a qualcosa d’Altro, cui è chiamato a rispondere.
Secondariamente colpisce il difetto di organicità delle legiferazioni antiche. Proprio in quanto manca una pianificazione a priori manca anche una sistematicità delle leggi: ogni atto politico è intervento ad hoc, legge ad personam e soltanto in secondo luogo, se viene accettato come dato di fatto e tradizione, può divenire pratica di valenza generale, con la possibilità spesse volte avveratasi di pratiche e leggi mutualmente contraddittorie e conviventi nella stessa comunità politica senza troppo scandalo.
Le stesse decisioni esecutive, principe delle quali è la guerra, sono intraprese non con l’intento di dare un certo ordine all’esistente, ma sulla base di calcoli puramente circostanziali. è vero che nel Medioevo esiste una teoria della guerra giusta e in un certo senso si può dire che le Crociate, nella misura in cui chiamavano alle armi in maniera deliberata e con l’intento di modificare radicalmente l’ordine politico del Vicino Oriente, siano state la prima impresa autenticamente moderna della storia — qui come in molti altri aspetti fino al XIX secolo, la Chiesa mostra la sua forza modernizzatrice. Eppure le Crociate, almeno formalmente, nascevano da una petizione dell’Imperatore di Costantinopoli, dunque come reazione ad una puntuale richiesta d’aiuto; le teorie della guerra giusta invece non impedivano affatto ai poteri cristiani di farsi guerra per faida o per altri futili motivi (o così almeno direbbe un moderno). Nell’antichità poi la guerra di conquista non abbisognava di alcuna grande giustificazione ideologica, era vista come un fatto naturale della vita.
L’antichità e il medioevo tuttavia non hanno visto meno mutamenti nelle forme generali della convivenza politica che la modernità, può obiettare il dubbioso. Questa affermazione è solo parzialmente vera e, nella misura in cui è vera, è importante inserire questi mutamenti nel loro contesto storico.
Per prima cosa bisogna dire che i mutamenti di forma politica — di costituzione — non si accompagnavano sempre a mutamenti di forma sociale, mai comunque a mutamenti radicali di forma sociale. Le civiltà antiche e medievali rimasero in larga misura civiltà agricole, fondate sulla famiglia nucleare allargata nel villaggio e nel clan, con troppo poco surplus per il commercio e l’accumulo, fortemente gerarchizzate, religiose. Fenomeni quali l’omosessualità e il divorzio, l’ateismo, il commercio e la finanza rimasero sempre marginali. Anche quando fosse cambiato un sovrano o addirittura si fosse passati dalla democrazia alla monarchia o dalla monarchia all’aristocrazia, nessuno si sarebbe mai sognato di intervenire su queste strutture sociali: esclusi momenti marginalissimi (per esempio l’età degli Antonini) nessuna autorità politica ha mai avuto una “politica economica” coerente o una “posizione sui diritti civili e sociali” deliberata. Insomma, il cambiamento politico, sia esso cambiamento solo di personale politico (cambi di dinastie, invasioni) o addirittura di forma politica, aveva sempre avuto un carattere superficiale rispetto alle tendenze di lungo periodo e alle strutture profonde della società.
Cambiamenti politici e mutamenti di costituzione, che pure avvenivano, avvenivano però in un contesto del tutto diverso dai mutamenti di regime tipici dell’Occidente moderno. Il concetto di “rivoluzione” era del tutto assente dal linguaggio politico antico e medievale: certo, poteva esistere la sovversione (v. sotto), ma non la rivoluzione in senso positivo. Le rivolte popolari e financo la creazione di regimi democratici, come i comuni italiani e le πόλεις greche, avvenivano non in seguito ad una formulazione concettuale del regime desiderato tradotta in sforzo e lotta politica, bensì per accrezioni graduali, per usufrutto di diritti lasciati vacanti da altra autorità, in seguito a vittorie militari in rivolte scatenatisi intorno ad una questione singola, insomma quasi per caso. Niente di meno deliberato e più naturale, del resto, che l’installazione di un monarca: il più forte prende tutto, e le ragioni si trovano dopo.
Questa realtà storica trova coerente riflesso nella elaborazione ideologica degli autori antichi, in particolare nella dottrina della anaciclosi. Questa antica ed augusta dottrina, oggi tristemente caduta in oblio, formulata per la prima volta in Erodoto e certo di lui più antica, e poi ripetuta ed accettata universalmente fino al Rinascimento ed oltre, assimila la vita della società a quella di un organismo vivente che ciclicamente si trasforma, come attraversando diverse fasi della vita, corrispondenti alle diverse forme politiche. L’assimilazione ad un animale del corpo politico dimostra la naturalità, l’essere dato e non prodotto, della convivenza umana. I mutamenti sono perciò ricondotti all’ambito della natura e così le forme politiche prese a se stesse: il mutamento non avviene perché lo decide l’uomo, ma perché la vita comune nella forma precedente si è deteriorata in modo tale che essa non può che trasformarsi. Se non fosse stato Napoleone, sarebbe stato qualcun altro — direbbe un greco.
Il dubbioso porterà alla nostra attenzione la legislazione pitagorica, le utopie platoniche e le considerazioni di Polibio sulla costituzione romana, come esempi di quel lavorìo concettuale finalizzato al cambiamento politico che è così caratteristico della modernità e che io classifico col nome di tecnocrazia. è vero che, di fronte alla dottrina del ciclo delle costituzioni, molti autori antichi sentirono un disagio tanto profondo da condurli alla ricerca di un antidoto a questa che doveva sembrare ad alcuni di loro una condanna di ogni sforzo politico. Intanto è interessante notare che questo non valeva per tutti: pur essendo largamente conosciuta e attestata, la dottrina non sembra aver dissuaso molti ad agire politicamente, segno che l’azione politica si svolgeva su un piano del tutto diverso da questi grandi cicli epocali. Gli autori però che si preoccuparono del ciclo delle costituzioni lo fecero in maniera diversa da come avrebbe potuto farlo un moderno.
Polibio per esempio individua nella costituzione romana la costituzione temperata capace di contrastare il ciclo. è da notare che in questo caso la dottrina non ha valore prescrittivo ma analitico, nel senso che Polibio la usa per spiegare la grandezza di Roma non per prescrivere come ordinare una futura città. Inoltre, anche Roma non è esente dal processo di decadenza naturale di ogni comunità politica, e di questo Polibio è conscio. Per cogliere tutta la differenza con la modernità è sufficiente confrontare questo atteggiamento con quello dei Founding Fathers americani, che pure si erano nutriti ampiamente di Polibio: quel che fu strumento analitico in Polibio divenne progetto d’architettura politica d’una comunità del tutto nuova e artificiale per i Fondatori americani. Se le considerazioni di Polibio erano il corrispettivo politico delle dottrine mediche di Ippocrate e Galeno, che prescrivevano il mantenimento di un certo equilibrio fra le sostanze del corpo umano in modo da ritardare la morte e minimizzare la sofferenza, allora l’azione dei Founding Fathers è analoga alla costruzione ex novo di un automa antropomorfo meglio-che-umano e incapace di morte. Oppure, per usare una metafora più realistica, Polibio sta al costituzionalismo moderno come la medicina antica, l’ammirazione per un corpo ben equilibrato e la ricerca di cure per le malattie stanno alla vaccinazione che vorrebbe prevenire le malattie prima ancora che insorgano, iniettandone una dose innocua nell’organismo.
Si potrebbe obiettare che analogo valore prescrittivo avevano le costituzioni pitagoriche e le utopie platoniche, anch’esse nate nel contesto di una colonizzazione di terre abitate da barbari — e dunque terrae neminis. Certamente, Platone anticipa e in molti casi anima la modernità e tuttavia dobbiamo riconoscere il carattere ultimamente teocratico di queste costruzioni. Le costituzioni pitagoriche come la costituzione di Licurgo erano ricondotte all’autorità divina, vuoi per mezzo dell’Oracolo delfico, vuoi per la supposta ispirazione e le esotiche ricerche dei loro autori. In tal modo, queste legislazioni erano ricondotte ad un ordine preesistente ma nascosto e rivelato dall’autorità divina; non si trattava di progettare il nuovo, ma di scoprire l’eterno. Naturalmente il meccanismo poteva essere piegato a scopi sovversivi e rivoluzionari, come si vede bene in Platone, che rende ancora più astratto il processo: nella Repubblica non è più un dio personale, Apollo o Horo, a rivelare i lineamenti della buona costituzione, ma è la verità stessa, l’Idea del Bene nel sistema platonico, a fondare l’ordine politico. Questa verità occulta aveva beninteso bisogno di interpreti, i filosofi, che così si candidavano al governo della comunità politica. La costruzione ha evidenti risvolti tecnocratici, ma il principio che la fonda e la anima è, se vogliamo, più teocratico dei teocrati perché si basa sull’individuazione di una verità più vera del vero, che richiede una revisione dei criteri della convivenza politica. Solo così un uomo dell’antichità sarebbe potuto pervenire ad idee così peregrine ed innaturali come la parità fra uomo e donna, la negazione della famiglia o il comunismo.
La considerazione di Platone ci conduce facilmente alla storia della tecnocrazia. Questa ideologia nasce, come detto, nell’Europa del Rinascimento, proprio a partire dalla riscoperta di Platone a scapito di Aristotele, dalla riscoperta di Origene in teologia a scapito di Agostino e da alcune premesse già poste dalla scolastica medievale. Nessuno di questi tre influssi da solo sarebbe stato sufficiente a scardinare la teocrazia, come si vede se si considera che tutti e tre sono occorsi fra antichità e medioevo senza produrre ciò che produssero agli albori dell’età moderna presentandosi insieme. Senza dubbio anche fattori sociali e materiali contribuirono al loro effetto dirompente, ma non è il caso qui di entrare nelle logomachie degli storici.
Platone da solo non era ancora un tecnocratico ma anzi in un certo senso un teocratico estremista. All’origine della convivenza politica così come dovrebbe essere stava per lui la Verità, la quale per deduzione, e non per rivelazione personale come nel caso delle costituzioni oracolari, determinava ogni aspetto della vita della città, fin nei minimi dettagli e con necessità scientifica. La vita politica a sua volta trovava corrispondenza nella vita del singolo e nella vita del cosmo, in un ordine naturale che l’uomo poteva sfidare solo a proprio rischio e che non lasciava spazio ad alcuna iniziativa autenticamente positiva.
In Origene lo schema platonico, già spogliato dei suoi aspetti sovversivi da Aristotele e dagli stoici, trova il suo primo formidabile avversario, ispirato da un messaggio nuovo, quello di Cristo. Questo precedente doveva rimanere tuttavia inascoltato fin dopo la scolastica. La scolastica prepara la coscienza europea ad accogliere una strana sintesi di origenismo e platonismo portata da Bisanzio facendone qualcosa di inaudito. Due pensatori medievali rappresentano tappe fondamentali in questo senso, san Tommaso d’Aquino e Guglielmo di Occam. Il problema, per entrambi, è la conciliazione di campi del sapere apparentemente diversi e contrapposti, la teologia e la filosofia, o anche di campi del reale contrapposti, il soprannaturale e il naturale. Il problema era già stato affrontato dai Padri della Chiesa, ma non si era loro posto all’epoca con la stessa evidenza e precisione logica che aveva nel tredicesimo secolo, in parte perché la teologia ancora non era chiara a se stessa. Fatto sta che san Tommaso alla tradizione dei Padri si appoggia, la precisa e la approfondisce e giunge ad una distinzione accettabile dei due ambiti, senza per questo postulare una autonomia della filosofia e della natura dalla teologia e dalla sopra-natura. Natura e sapere profano sono comunque inseriti in un ordine superiore e necessariamente in relazione all’Altro. Intanto però una distinzione è stata fatta e ciò avrà importanti conseguenze per il pensiero sul Continente.
La soluzione di Occam è, come è tipico degli inglesi, più brutale e al contempo più ipocrita. La natura e la filosofia sono concepiti come uno spazio completamente autonomo, una “eccezione” all’ordine divino se vogliamo, la cui autonomia è stata sancita per sovrana decisione da Dio. L’emancipazione dell’agire umano dipende in ultima analisi ancora da Dio, ma non più — come in Platone e, in certa misura, in san Tommaso — da un qualche ordine oggettivo bensì da una Sua decisione soggettiva. Ma poiché questa decisione rimonta alla Volontà e non alla Ragione divina, e poiché essa è, per così dire, un assegno in bianco all’uomo e alla natura, molto più che mettere l’uomo in relazione con l’alterità, Dio o la realtà, è una decisione che si sottrae alla relazione, che si nasconde nell’imperscrutabilità della volontà divina lasciando in cambio un parco giochi senza regole all’uomo. Per Occam, questa relazione uscita dalla porta della realtà e della ragione rientra dalla finestra della rivelazione e della religione, e qui già c’è tutta la storia moderna della religione, oscillante fra fanatico fideismo e razionalismo miscredente.
Queste premesse scolastiche propiziarono una lettura radicale di Platone e Origene, ritornati in Europa occidentale alla caduta dell’Impero Bizantino. La ragione che, in varii modi fino ad allora, aveva reclamato una propria distinzione, giunge finalmente all’autonomia. Il risvolto epistemologico di questo passaggio fu la nascita della scienza galileiana. I risvolti politici si osservano già in Machiavelli e in san Tommaso Moro. San Tommaso Moro riatta Platone alle necessità del tempo, in forma di satira certo, ma di fatto aprendo le porte al genere dell’utopia, una riflessione a priori e generale sulla convivenza umana. In Machiavelli la ragione politica è emancipata da qualsiasi ordine morale o teologico che la trascenda; l’ultimo residuo teocratico di questo pensiero è la fortuna, ma si tratta per l’appunto di un residuo, di una forza puramente negativa rispetto alla volontà umana, il contenitore generico di tutto ciò che — dati i mezzi presenti — sfugge al controllo. Essa non impone alcun ordine particolare né “santifica” o naturalizza le forme della convivenza sociale presenti; tutto al contrario, è la forza stessa del mutamento continuo ed un elemento di disordine rispetto alla ragione ordinatrice dell’uomo.
Bisogna tuttavia considerare che l’emancipazione della ragione non è avvenuta tutta d’un colpo ma per gradi: come un condottiero che, fatta breccia in un punto cruciale dell’architettura difensiva d’una contrada, poi dilaga nell’intero paese, più veloce o più lento a misura che il terreno concede al suo passo od ostacola e che la popolazione e gli eserciti oppongono più fiera o più rimessa resistenza, ma pure dilaga essendo ormai entrato nel paese, così la tecnocrazia è stata applicata nel tempo di volta in volta a sempre nuovi ambiti della vita umana senza che nessuna difesa locale potesse fermarla per più che qualche decennio o secolo.
Prendendone ad esempio i risvolti epistemologici, osserviamo che la fisica delle essenze non fu subito messa in crisi con la riscoperta di Platone, ma si dovette aspettare Locke per una critica completa al concetto di sostanza e Hume per quella al concetto di causa, fino alla riduzione della realtà a vuota apparenza in Kant. Allo stesso modo in politica vi fu prima l’emancipazione della ragione politica da criteri morali e metafisici di Machiavelli e solo in un secondo momento la dottrina del contratto sociale, che presuppone la capacità dell’uomo di determinare autonomamente le forme del proprio vivere comunitario. Sulla base di questa dottrina i rivoluzionari del diciottesimo secolo discutevano di forme politiche, come se questa o quella costituzione potesse essere creata ex novo in una comunità. E tuttavia la tecnocrazia non si fermò alla critica delle istituzioni politiche. Come Machiavelli aveva fondato la “scienza politica” così Adam Smith aveva isolato i rapporti economici dai loro presupposti morali creando una “scienza economica” che, come nel caso di Machiavelli e dei rivoluzionari del diciassette e diciottesimo secolo, fu prontamente sfruttata dai rivoluzionari del diciannovesimo, i socialisti e i liberali, per postulare la possibilità da parte dell’uomo di pianificare e manipolare a priori i rapporti economici e lavorativi, o come singolo o come collettivo. Certo la brama di potere dell’uomo non si poteva fermare a queste cose puramente esteriori, sicché l’isolamento dei rapporti umani stessi dai loro presupposti etici tentata per la prima volta da Freud nella psicoanalisi non ha potuto che dare origine ad una τέχνη dei rapporti umani, da cui provengono il femminismo, la distruzione della famiglia e la rivoluzione sessuale: l’essere umano può pianificare e manipolare la sua stessa sessualità in assenza di un ordine reale con cui sia costretto a relazionarsi. “Ultimamente, in questi giorni” i potenti e i saggi del mondo ci dicono che sarebbe addirittura possibile manipolare la natura del singolo uomo, isolata com’era stata da ogni metafisica o morale ad opera della dottrina sull’origine delle specie di Darwin e dalla genetica — è l’ideologia nota come transumanesimo, ma non è diversa, a ben vedere, dalla costituzione americana.
Il tiranno.
Mi sia concessa una divagazione su un’altra parola a titolo d’esempio, per dimostrare il percorso storico sopra delineato. La parola “tiranno” è sempre stata, nel linguaggio politico occidentale, una sorta di formula magica, un sortilegio di dannazione eterna da scagliare contro l’avversario politico, spesso al di là del merito o del demerito dello stesso. Come tale, nel pensiero politico essa ha rappresentato, sin dalla terribile descrizione del tiranno nel nono libro della Repubblica platonica e nel Gorgia, il caso-limite della negatività politica, la perfetta indesiderabilità. Pur rimanendo costante questa sua posizione nella mappa concettuale degli europei, il suo significato concreto è venuto di volta in volta a variare, come uno specchio concavo della ideologia politica di volta in volta regnante. Perciò questa parola è una cartina al tornasole del modo di percepire l’intero mondo politico da parte delle varie epoche.
Com’è noto la parola non è di origine greca e, almeno nelle sue prime attestazioni, non aveva una accezione negativa o non la aveva necessariamente. Pian piano nel mondo greco arcaico viene a definirsi una prima significazione della parola in senso negativo: “tiranno” è un membro della tradizionale aristocrazia che, sfruttando lo scontento dei cittadini più poveri o indebitati, riesce a levare di mezzo i suoi concorrenti aristocratici e ad accumulare su di sé tutto il potere della città. L’origine straniera, orientale, della parola potrebbe segnalare l’imitazione di forme politiche estranee al mondo greco e sicuramente si porta dietro una connotazione di alterità, percepita con ostilità dalla sciovinistica aristocrazia greca.
Ciò che era solo politichese o generica connotazione negativa di figure storiche, diviene con Platone un vero e proprio archetipo del pensiero politico. Il rapporto di Platone con i tiranni è notoriamente complicato, però non c’è dubbio che a lui si debba la codifica definitiva di questa figura come concetto fondamentale del pensiero politico al di là delle singole contingenze storiche o dei singoli personaggi. Per Platone, il tiranno, essendo un uomo in disordine, non può che produrre disordine. Il suo mondo interiore, nel quale le facoltà che dovrebbero essere sottomesse dominano e le facoltà che dovrebbero dominare sono sottomesse, si proietta nel suo modo di governare la città, che sovverte ogni ordine naturale dei rapporti umani. Non è che il tiranno sia del tutto privo di ragione, ma non riesce ad usarla se non come calcolo per massimizzare la soddisfazione dei suoi appetiti, essendo tagliato fuori da qualsiasi rapporto con la Verità.
Dopo Platone la parola diventa spesso un insulto gratuito all’avversario politico. In questo senso, notevole è l’uso che se ne fece dall’Impero Romano fino a quello Bizantino, con notevole stabilità d’impiego: “tiranno” è la designazione standard dell’usurpatore; se il tiranno originario, nel contesto dell’aristocrazia arcaica, era un contendente al potere che ce l’aveva fatta, nel contesto della monarchia tarda e medievale il tiranno è il contendente che non ce l’ha fatta, dato che usurpatori e imperatori possono essere distinti solo a posteriori, dopo che qualcuno ha prevalso e gli altri sono usciti di scena.
Nel medioevo la categoria riceve nuova vita e diventa fondamentale sia nella lotta politica che nella teorizzazione. “Tiranno” è colui che sovverte le norme stabilite, contraddicendo la struttura naturale e data della società per qualsiasi scopo. Usando in questa maniera arbitraria del proprio potere — in qualsiasi modo ne sia venuto in possesso — il tiranno trasgredisce la legge divina e priva gli altri uomini dei loro diritti, diritti — si badi bene — non ancora connaturati alla natura dell’individuo ma risultanti dall’ordine del mondo così com’è e dai doveri dell’uomo verso la divinità. Certo, non sempre il medioevo teneva fede a questa esigente definizione del tiranno e, nella pratica, praticamente ogni potere politico che, introducendo una qualsiasi novità, pestasse i piedi ad un altro potere, poteva sentirsi chiamare tirannico. Anche l’introduzione di una nuova tassa, se non rispettava certe condizioni, era cosa tirannica. In questo senso medievale, furono chiamati tiranni Federico II di Svevia e Giovanni il Senza-Terra.
Ora la definizione medievale di tiranno ce ne fornisce il modello più esatto e generale, perché capace di comprendere tutti gli altri significati. Nella Grecia Arcaica, in Platone e nell’Impero Romano, il tiranno era comunque, per motivi diversi, colui che introduceva una novità contro natura, colui che contraddiceva l’ordine teocratico del mondo in favore di una propria costruzione politica. Ciò è chiaro nella Grecia Arcaica, sia perché il tiranno introduceva una forma di signoria estranea alla tradizione sentita come propriamente e naturalmente greca, sia perché l’agonismo delle aristocrazie cittadine presupponeva un certo equilibrio nella vittoria e nella sconfitta che preservasse il nemico politico da una completa scomparsa e lasciasse aperta la porta ad un rivolgimento, equilibrio che il tiranno contraddiceva nei risultati e nei mezzi: nei risultati, perché eliminava completamente i propri antagonisti e cambiava di fatto il regime della città; nei mezzi, perché introducendo la massa diseredata alla partecipazione politica, tradizionalmente riservata ai clan aristocratici, cambiava nei fondamenti e in maniera irreparabile le regole del gioco. Non solo e non tanto il potere assoluto era il marchio del tiranno, quanto la sovversione dei postulati più importanti della vita politica della πόλις arcaica.
Questo concetto viene approfondito da Platone che, facendo del tiranno il negativo del filosofo, proietta la sovversione politica all’interno della sua anima facendone una sovversione morale. Il tiranno è colui che modifica l’ordine proprio delle facoltà umane e dei varii tipi umani che ad esse corrispondono, ponendo alla testa il δῆμος, la massa diseredata, corrispondente all’appetito del ventre, e riducendo il guerriero e il filosofo, cioè la volontà e la ragione, a far da schiavi a quello. Anche qui, il punto fondamentale è la sovversione dell’ordine naturale delle cose.
Meno evidente il carattere sovversivo del tiranno nell’uso imperiale e bizantino del termine, e tuttavia ancora presente. L’usurpatore, proprio in quanto ha perso, dimostra di essere stato privo del favore divino sin dall’inizio e dunque il suo regno sarebbe stato — pur se non si è avverato, o se si è avverato ed è stato interrotto — in ogni caso ingiusto e contrario all’ordine del mondo. Poiché l’usurpatore si muove contro il volere divino, contro il mandato del Cielo direbbero i cinesi, la sua impresa politica scaturisce per forza dal suo proprio arbitrio, che vorrebbe porre in essere ciò che non può né deve essere.
Tutte queste concezioni del tiranno presuppongono un ordine politico che si può seguire o contraddire con esiti rovinosi. Tale ordine politico è perciò, in ultima analisi, indisponibile all’arbitrio umano perché, anche se contraddetto, tornerà a farsi sentire causando la rovina della comunità.
Prendiamo ora l’utilizzo della parola in età moderna. Certamente esiste una corrente del liberalismo (v. sotto) che, riallacciandosi alla definizione medievale del tiranno, lo definirebbe come il personaggio politico che contraddice i diritti naturali dell’uomo. Qui però bisogna tener presente che la concezione dei diritti è cambiata completamente rispetto a quella medievale e non ci troviamo più di fronte ad una serie di libertà risultanti dall’ordine in cui il mondo è o dovrebbe essere, bensì di fronte a degli “assegni in bianco” all’interno di un certo ambito concessi all’individuo, traduzione politica dell’antropologia occamistica vista sopra. Dal punto di vista medievale, il tiranno dei liberali è soltanto l’individuo più forte di un popolo di tirannetti e tirannucci, ciascuno intento a difendere la propria aiola di anarchia dall’altro; è soltanto giusto e appropriato che, se gli uomini si comportano così, prima o poi giunga qualcuno di più forte che si accaparri le aiole degli altri. Vi è differenza di grado ma non di natura, insomma.
Nell’uso più comune invece la parola “tiranno” ha perso la sua peculiarità politica, diventando uno scolorito sinonimo di termini come “dittatore” o “autocrate”. “Dittatura”, “autoritarismo”, “autocrazia”, “totalitarismo” e “tirannia” hanno, nell’uso comune e nel gergo giornalistico e politico, sostanzialmente tutte il medesimo significato e, per solito e nel linguaggio più sciatto, funzionano come un semplice insulto privo di valore descrittivo. Quando una larva di senso abita ancora la carcassa del termine, a fatica se ne divisano i tratti: “tirannia” e sinonimi sono il contrario di “democrazia”, intendendo qui la social-liberal-democrazia che, in sfumature diverse, caratterizza i paesi Occidentali. “Tirannia” è dunque sul piano politico quando non ci sono le elezioni o le elezioni sono truccate, sul piano economico quando c’è povertà, sul piano sociale quando la comunità è tendenzialmente conservatrice. Tirannia sono loro, democrazia siamo noi.
Da quest’uso della parola si deduce la sua perdita completa di importanza. Certo, all’apparenza manterrebbe la sua funzione di negativo politico, ma la presenza di sinonimi dimostra la perdita del luogo centrale del pensiero politico che la parola prima occupava. Anzi, dopo la Harendt, possiamo dire che il Male Assoluto del nostro pensiero politico è rappresentato dal totalitarismo, più che dalla tirannia. La perdita di significato di “tiranno” a sua volta dimostra il cambiamento epocale di concezione politica fra medioevo ed età moderna, con la caduta di un paradigma teocratico, nel quale il Male Assoluto era rappresentato dalla sfida alla divinità comunque intesa, e la nascita di un paradigma tecnocratico, dove quella sfida non ha più alcun significato.
Il problema del liberalismo.
L’obiezione a questa schematica storia della modernità sarebbe che è, appunto, troppo schematica. Non intendo qui profondermi nell’imbarazzante danza delle note a piè di pagina e delle buone prassi scientifiche cui già troppo a lungo indulsi. Il lettore avveduto si avvedrà che ho ragione senza tutte le cerimonie che pretende un rispettabile redattore di rivista scientifica. Resta però che molte delle dottrine politiche moderne sembrerebbero richiamarsi a una forma di ordine, se non altro un ordine morale, o ai “dati scientifici”, nel proporre le loro modifiche all’ordine concreto del mondo. Questa circostanza richiede una spiegazione, perché un perplesso potrebbe utilizzarla per invalidare le riflessioni storiche svolte fino ad adesso. Poiché ogni singola dottrina andrebbe attaccata nei suoi propri punti dolenti e però troppe dottrine ha prodotto la modernità per tenere conto di tutte, intendo qui dedicarmi all’analisi di una delle due chiese principali della modernità politica, cioè socialismo e liberalismo. Non ha senso discutere di socialismo, né qui né altrove, giacché nessuna persona seria l’ha mai preso in considerazione e chi lo sostiene seriamente non va preso in considerazione. Il liberalismo invece è un argomento piuttosto interessante per via della sua apparente ambiguità, capace di affascinare addirittura dei cattolici avveduti e con spunti apparentemente teocratici.
Prima di tutto bisogna chiarire che, con la parola liberalismo, intendo qui soprattutto il liberalismo classico, dei vari Locke, Smith, dei Founding Fathers americani etc. La scelta del bersaglio è vantaggiosa perché in quell’ideologia i ragionamenti si applicano tanto agli aspetti morali e sociali (liberalismo vero e proprio, nell’accezione odierna) che a quelli economici (liberismo); non solo, ma mentre il liberalismo ufficiale oggi si è notevolmente compromesso con forme di socialismo, gli esponenti più estremi e coerenti delle dottrine liberali oggi, cioè i libertari o anarcocapitalisti, non fanno altro che riproporre gli stessi schemi argomentativi del liberalismo classico in un contesto economico e sociale totalmente mutato, nel quale quelle proposte risultano estreme. D’altronde lo stesso liberalismo ufficiale si è contaminato col socialismo proprio grazie alla clausola tecnocratica presente all’interno del liberalismo classico e di cui ora discuterò.
L’ambiguità del liberalismo cui si faceva riferimento può essere così formulata: esso da una parte propone argomenti sovversivi delle autorità costituite, i quali sconfinano spesso nell’utopico, mentre dall’altra parte appoggia queste argomentazioni e, si può dire, financo la sua utopia, su un certo realismo o primato della realtà (di contro all’ideologia cioè alla fantasia politica) nella vita umana. In quanto è realista, il liberalismo attrae anche i cattolici, perché il suo realismo appare come una apertura alla trascendenza: le limitazioni all’autorità del governo, il decentramento del potere e l’avversione verso il monopolio sembrano appoggiarsi sulla dottrina del peccato originale, perché sarebbe assurdo affidare ad un individuo o a un gruppo ristretto di individui per natura corrotti un potere assoluto; l’enfasi sulla libertà personale in contrasto con progetti utopistici, e ugualmente l’accettazione della disuguaglianza e la rassegnazione verso le sofferenze e gli inconvenienti della vita umana parrebbero radicati in una convinzione teocratica della provvidenzialità della realtà così com’è e in una rinuncia all’autodeterminazione completa dell’uomo, dunque una limitazione del principio tecnocratico.
L’ambiguità di questa ideologia si è manifestata nel corso della storia, quando i primi pensatori liberali agirono come nemici dell’ordine costituito, dell’autorità e della religione, così da distruggere l’antico regime teocratico e diventare a tutti gli effetti gli araldi e i paraninfi del nuovo sistema tecnocratico. Dall’altra parte, dopo la comparsa del socialismo e soprattutto dopo che la Grande Chiesa del liberalismo a partire dal 1870 si fu spostata su posizioni sempre più stataliste, la riproposizione degli originali argomenti liberali, soprattutto da parte di liberisti e anarcocapitalisti, ha sempre più giocato il ruolo della “destra” cioè di un atteggiamento ancora teocratico e arretrato rispetto alle posizioni tecnocratiche della maggioranza. Da qui l’insensata domanda che spesso ci poniamo nell’intimo: ma se John Locke avesse visto tutto questo, ma se Thomas Jefferson fosse vivo oggi, cosa penserebbe? Sosterrebbe le sue idee con la tessera dell’Istituto Mises o continuerebbe la sua battaglia in Black Lives Matters?
L’origine di questa ambiguità del liberalismo è nell’insieme degli inganni consci e delle illusioni involontarie che formano tale ideologia. Per quanto concerne gli inganni, basterà leggere le pagine che Schmitt dedica al senso di concetti quale quello di “libertà” nella lotta politica all’interno del suo famoso saggio sulle categorie del politico. Il liberalismo in questo senso è un utile grimaldello nelle mani di minoranze che vogliano guadagnarsi più spazio e agibilità politica: così fu usato dai comunisti del Free Speech Movement dei college americani degli anni ‘60 e così fa oggi il conservatorismo boomer. Gli ideali di imparzialità e libertà personale sposati nelle catacombe saranno poi con profitto dimenticati nei palazzi del potere, dove un nuovo senso di responsabilità e di realismo porterà a evitare di fare false equivalenze o di comportarsi con falsa neutralità.
A riguardo delle illusioni, si dirà in generale che il liberalismo inteso come realismo e come negativo del socialismo e anti-utopia – nell’accezione cioè che va per la maggiore oggi “a destra” e che attira le simpatie di alcuni cattolici – è la classica trappola hegeliana: chi si oppone al corso progressista viene ridotto e schiacciato in una posizione (in parte anche grazie ai vantaggi strategici della stessa, come detto nel paragrafo precedente) che solo apparentemente è in contrasto con quella progressista (il socialismo) ma che in realtà è, con essa, sintomo della stessa malattia generalizzata, la tecnocrazia. Tutti gli argomenti anti-socialisti adottati dai liberali, nel contesto della loro dottrina, si risolvono nei medesimi risultati che quelli socialisti che vorrebbero negare, talché l’opposizione fra ideale socialista e concreto liberale s’è sempre risolta e sempre si risolverà in una sintesi progressista.
Prendiamo per cominciare l’antimonopolismo dei liberali, un atteggiamento che si applica come al mercato così anche allo stato e alle funzioni che normalmente vi sono sussunte. Questo atteggiamento si è concretizzato per esempio nel costituzionalismo, di cui ho parlato sopra, ma anche in più generici richiami alle liberalizzazioni o alla maggiore razionalità delle dinamiche del mercato rispetto alle decisioni politiche. Ciò che è palese nel costituzionalismo è implicito ma altrettanto presente nel mercatismo liberale, vale a dire il tentativo di ideare un sistema politico tale da determinare condizioni nuove e migliori nella vita degli uomini. In questo senso vanno le argomentazioni liberali e soprattutto libertarie sulla maggiore razionalità del mercato, volendo dimostrare che un certo tipo di organizzazione sociale per sua propria virtù e indipendentemente dalla moralità di chi la compone dia risultati più morali e benefici che un altra; e in questo senso il liberalismo non differisce dal socialismo, nella pretesa cioè che la forma della società, la tecnologia politica e giuridica che per mezzo del potere può essere imposta alle persone, questa forma possa determinare la vita della società a prescindere dalla materia della società, le persone che la compongono. Nello stesso momento in cui il liberale sembra appellarsi alla dottrina del peccato originale per attaccare il monopolio politico di alcune funzioni sociali, egli suppone la bontà naturale dell’uomo nel difendere la delegazione di quelle funzioni ai poteri economici.
L’atteggiamento di rassegnazione e realismo di fronte agli inevitabili difetti che il sistema sociale proposto dai liberali dovrà produrre corregge solo in apparenza il loro atteggiamento russoviano, poiché la concezione di realtà dei liberali, la loro metafisica, è all’origine tarata. Da un punto di vista storico, essi non fanno altro che applicare all’ambito della politica i ragionamenti teologici di Occam e Origene. In questa prospettiva, la realtà non è un qualcosa di fisso e ordinato secondo essenze proprie, con le quali l’uomo possa entrare in relazione secondo criteri di verità o bontà – quindi assentendo o negando la chiamata o l’ordine insito nella realtà stessa. Il mondo è al contrario una presenza del tutto accidentale, così come sono accidentali i legami e le identità con le quali l’individuo viene al mondo. Come nella cosmologia di Occam, l’uomo dei liberali ha a disposizione una sfera di realtà nella quale può modificare le cose senza incontrare la resistenza di alcun ordine stabilito. Questo è in effetti il senso dei cosiddetti diritti presupposti dalle costituzioni moderne, in ispecie quella americana: libertà di parola, di commercio, di religione non definiscono una facoltà per mezzo della quale l’uomo dia il proprio assenso in maniera efficace alla verità e al bene (come era nella concezione teocratica), ma bensì un’area entro la quale l’uomo a prescindere dalle proprie facoltà personali, l’uomo cioè in astratto, non può incontrare resistenza, e dunque non può incontrare la verità (e se lo fa lo fa in maniera del tutto accidentale rispetto al diritto di cui si parla). In questa prospettiva è possibile capire la pretesa liberale di collocare alcuni piani dell’agire umano, in particolare quello economico, non nell’ambito della morale ma in quello delle scienze naturali: la nascita dell’economia moderna – cui tutti i pensatori economici da Smith a Marx e seguaci agli austriaci afferiscono – consiste proprio nella traslazione dell’analisi economica dal piano prescrittivo, nel quale si trovava sin da Aristotele e Senofonte, a quello puramente descrittivo. Non esistendo un ordine metafisico a priori della realtà, l’agire economico è scevro da ogni valutazione morale. Questo spiega inoltre come mai i regimi liberali del diciannovesimo secolo siano sprofondati, ciascuno per la sua via, in forme di tecnocrazia: con l’espandersi dell’impresa scientifica si sono espanse, prima di tutto nell’opinione delle élite liberali stesse, le aree d’azione sottratte alla morale in favore delle aree descritte in modo puramente tecnico.
Inoltre, tale libertà non è solo vuota di contenuto ma è anche tendenzialmente illimitata. L’esistenza attuale del dolore, della scarsità o del peccato sono ammessi dai liberali al fine di confutare le dottrine socialiste o in generale per attaccare il potere politico e sono ammesse altresì nella loro utopia che appare così non utopica. E tuttavia questi limiti non sono assunti come condizioni strutturali della realtà, né ve ne sono altri di tipo metafisico che si applichino all’uomo libero; il negativo attuale è un puro accidente, se ne riconosce l’esistenza cioè senza offrirne un significato, al contrario auspicando e spesso promettendo il suo superamento per mezzo della tecnologia e del benessere materiale che il sistema liberale dovrebbe garantire. Non è nemmeno detto per il liberale che questo sogno si realizzi, ma la sua semplice ipotesi o la speranza in esso è sufficiente a rivelare la radice anti-realista e dunque tecnocratica del liberalismo. Non solo, ma come vengono superati i confini reali, è pensabilissimo di superare i confini giuridici della libertà così intesa. Certo, ognuno ha il suo spazio entro il quale è libero, ma essendo questo spazio astratto e omogeneo – in ultima istanza: vuoto – esso potrà essere allargato a piacimento senza pregiudizio della coerenza della dottrina; da questo nasce il proliferare dei diritti così tipico della nostra epoca.
Come dicevo, i liberali non sono solo figli di Occam ma anche di Origene, il che si vede nella loro falsa concezione dell’uomo. Poiché essi svuotano di significato le condizioni oggettive e reali della vita umana, essi svuotano nel medesimo tempo l’essere umano del suo contenuto; da persona o singolo, edificato dalle sue identità collettive (famiglia, villaggio, paese, religione) e dai legami necessari su cui queste poggiano, egli diviene individuo, un agente libero in un mondo vuoto, che riconosce come legittimi solo i legami elettivi, volontaristici e mai quelli reali: non consensus facit nuptias, ma consensus est nuptias. Certo, alcuni libertari potrebbero replicare che essi mantengono la validità dei legami di sangue o che addirittura lodano l’istituzione del matrimonio; tuttavia, la loro concezione del matrimonio non è quella sacramentale, di un oggetto reale e inscindibile, bensì di un contratto – per quanto riverito – o di una grande tecnologia sociale, finalizzata alla responsabilità individuale, nel caso specifico verso la prole. Di più, anche nel caso in cui non si riscontrino sostanziali differenze fra la corretta concezione di un legame e la concezione che ne hanno i liberali, come nel caso dei legami di sangue, si tratta comunque di una forma di accettazione residuale, arbitraria, mentre la necessità logica del loro pensiero va in tutt’altra direzione, cioè, come visto nel caso del matrimonio, verso la contrattualizzazione (e, se possibile, l’economicizzazione) di ogni legame esistente.
Dato che molto, se non tutto, ciò che il singolo è si gioca in questi legami fondamentali, nella vocazione e nel destino che lo chiama da fuori di sé a uscire da sé, risulterà chiaro che l’elisione di questi elementi eteronomi corrisponde ad una elisione della natura umana. Ciò è vero sia sul piano del singolo che, privato del suo destino proprio, viene consegnato ad una libertà uniforme a quella di tutti i suoi simili, che sul piano generale della natura umana: non esiste una verità sull’uomo qua uomo anteriore alle scelte dei singoli, cosicché ogni uomo è capace, per usare espressione umanistica, di farsi angelo o bestia secondo il suo talento. Non è un caso che la figura eroica del liberalismo sia quella del self-made man, letteralmente l’uomo creatosi da solo, perché privo di un riferimento trascendente. Questo è espresso artisticamente nel personaggio di Robinson Crusoe, la cui vicenda non poteva che svolgersi in un’isola deserta, immagine della sfera di libertà priva di trascendenza che, secondo i liberisti, è consegnata all’uomo dalla nascita. Crusoe per mezzo del naufragio si libera dei legami della società europea, cioè del destino, della storia e della vocazione sua propria e approda in un mondo in cui ciò che esiste davvero, cioè ciò che agisce, è solo lui stesso, ma un lui stesso il cui nome e storia sono, in quel contesto, assolutamente irrilevanti. Alla fine, mi si permetta un’espressione colorita, fra il cacciavitaro che pensa di essere autonomo e il transessuale che pensa di poter modificare il proprio corpo, non v’è alcuna differenza: sono la stessa figura.
[I libertari contemporanei obietteranno che la loro dottrina dell’azione umana, aprioristica e formale, corrisponde a ciò che io chiamo “natura umana”, in senso generale. Ciò non è vero: (a) poiché i principi dell’azione umana, pur essendo in apparenza dedotti logicamente, non hanno validità necessaria. Essi sono infatti presentati nella forma di teoremi e ipotesi generali ma non hanno il potere vincolante dei teoremi matematici o della logica formale, essendo sempre aperti alle eccezioni o a casi particolari; dunque essi non si impongono al ragionamento sulla base di una dimostrazione necessaria, bensì per la loro verosimiglianza e per il fatto che spesso e per masse sufficientemente grosse di persone funzionano. Ne consegue, che essi non sono realmente proposizioni a priori e formali perché si appoggiano sulle nozioni pregresse e le aspettative del lettore, si basano cioè sul buonsenso e una grossolana induzione. (b) Di più, essendo riducibili a proposizioni condizionali (del tipo if, then), questi postulati dell’azione umana non possono essere, a rigore, considerati formali o categoriali, bensì appunto soltanto condizionali. Essi ci parlano delle reazioni dell’uomo a determinati stimoli e situazioni e si potrà eventualmente soltanto dire che essi parlano della natura umana nella misura in cui il buonsenso su cui poggiano nel tracciare relazioni condizionali contenga implicitamente una concezione della natura umana. Non è dunque possibile argomentare una concezione essenzialistica della natura umana sulla base del preteso essenzialismo della dottrina dell’azione umana.]
Il fallimento analitico della tecnocrazia.
Oltre ad essere un modello fallimentare nei suoi risvolti prescrittivi, la tecnocrazia fallisce anche come modello descrittivo. Il corrispettivo descrittivo della prescrizione della filosofia politica è la storiografia, poiché questa descrive lo svolgersi delle vicende umane e il funzionamento dei sistemi politici, delle economie e delle società del passato. Ora che una teoria non funzioni a priori, non abbia cioè capacità predittive, è interamente escusabile ed è probabilmente il contrassegno di una teoria non satanica. Contra, una teoria che non funzioni nemmeno a posteriori, e che per di più abbia l’ardire di prescrivere il futuro, non può essere definita che come un delirio di onnipotenza ben poco informato. Questa è la tecnocrazia.
La nascita di una storiografia tecnocratica corrisponde con il recupero della storiografia antica a scapito della cronica medievale da parte dei dotti umanisti. Il periodo della storiografia medievale, specie nell’Europa latina, è dominato dall’agostinismo politico, vale a dire che ogni cronachista conformava il suo lavoro, negli schemi e nelle categorie interpretative, alla dottrina della Civitas Dei di sant’Agostino. Analogo ruolo svolse nell’Europa ellenofona e sira, copta, armena, georgiana, il modello di Eusebio di Cesarea. Caratteristica propria di queste dottrine storiografiche è il presupposto teocratico dell’analisi storica, per il quale la storia è tutta guidata e sorretta dalla Provvidenza divina. In questo quadro l’essere umano, e come singolo e come collettivo, non è l’unico agente del divenire storico, bensì interagisce con forze immateriali quali Dio e il demonio. La storia dunque si sottrae ad una conoscenza completa delle circostanze e delle cause, poiché non tutto ciò che vi accade è di ordine materiale e, come tale, sfugge alle facoltà limitate dell’uomo. Spesso la storiografia si fa semplicemente cronica, elenco e memoria degli avvenimenti, con una certa modestia nel proporne interpretazioni causali, quando non scompare proprio qualsiasi “tesi” dall’opera storiografica.
Quando gli umanisti riscoprirono la storiografia naturalistica degli antichi, non comprendendone i presupposti profondi, la fraintesero e quel fraintendimento informò tutta la storiografia moderna. Com’è ovvio, questo fraintendimento non fu del tutto disinteressato, nel senso che l’errore spingeva nella direzione della tecnocrazia, come mille altre circostanze e fenomeni intellettuali di quell’epoca, talché non può essere assunto come un fatto isolato e un sintomo di ignoranza o incompetenza di quegli stessi umanisti.
Certo, la storiografia antica raramente attribuisce agli dèi o ad altri spiriti in maniera esplicita l’occorrere di questo o quel fenomeno, a differenza dell’epica, nella quale gli dèi, le ninfe e gli altri spiriti erano personaggi del tutto analoghi agli esseri umani nel causare e subire le vicende narrate. Non era perciò, di contro alla cronachistica medievale, una storiografia teologica. In effetti, possiamo distinguere due filoni principali nella storiografia antica, quello erodoteo e quello tucidideo, corrispondenti in larga parte al modello educativo di Isocrate e a quello di Platone.
Il modello di Erodoto, che potremmo chiamare storiografia moralistica, tende ad attribuire i successi e gli insuccessi dell’agire politico — la materia principe della narrazione storiografica — alla moralità degli attori, sieno essi singoli o collettivi. Ecco dunque che questo o quel regime, questa o quella città, prevalgono e declinano a causa delle loro virtù e dei loro vizi, non certo perché questo o quel regime sia strutturalmente più stabile o più valido. Un tale indirizzo storiografico si concentrerà sulla descrizione di singoli uomini esemplari per le loro qualità morali, cercando di individuare in queste i fattori della loro gloria e della loro infamia. Nessuno spazio hanno, in questo approccio, economia, strategia, analisi squisitamente politica; il che è a dire che l’uomo vi è assunto come persona libera e morale a scapito dei sistemi in cui si trova. Essi sono non altro che la somma delle volontà virtuose o viziose degli uomini che li compongono.
Nella storiografia tucididea vi è certo un’attenzione maggiore agli aspetti complessivi e sistematici dell’esperienza umana. Vi si può anche già osservare come un esordio della autonomia di discipline quali la strategia e la politica, le quali, dai retroscena tecnici in cui si trovavano illuminano di quando in quando lo sguardo dello storico. Epperò tutto questo è ricompreso in una concezione immutabile della natura umana, tale da porre un limite indisponibile all’azione umana istessa. Senza negare all’uomo politico uno spazio di manovra nel contingente, Tucidide gli sottrae comunque l’essenziale assegnandolo al luogo della φύσις o al limite della τύχη, le quali entrambe sono seppur alla lontana forze divine. Il politico può dunque agire efficacemente o senza efficacia ma mai potrà ribaltare una dinamica o una situazione corrispondente al corso o allo stato naturale delle cose. Non v’è progettualità politica, in senso stretto, in Tucidide.
La storiografia moderna, volendo prescindere da Dio e avendo scordato la natura come forza divina (così era intesa dai Classici), tende col tempo ad una storiografia sempre più impersonale o, in un certo senso, troppo personale. La dicotomia è stata sviscerata abbondantemente dal Leone Tolstoj nel suo romanzo “Guerra e Pace” e l’impasse cui giunge l’analisi di un uomo di tale levatura deve valere come confutazione perenne della storiografia tecnocratica moderna.
Il Tolstoj propone una antitesi nell’individuazione delle forze che muovono la storia fra la volontà degli individui eccezionali, al modo di Napoleone che tanto aveva scosso le coscienze europee dell’epoca, e le tendenze delle masse. Il risultato della sua analisi delle guerre napoleoniche è una netta esclusione del Führerprinzip dal reame della storia ma anche una adesione tiepida se non proprio uno scetticismo verso la possibilità di comprendere la storia analizzando le masse. Se vogliamo, l’antitesi tolstoiana ripropone il contrasto fra Erodoto e Tucidide nel contesto tecnocratico della modernità: la storiografia napoleonica, delle grandi individualità, è l’erede abnorme della storiografia moralistica di Erodoto, fatta di aneddoti e caratteri, mentre la storiografia delle masse, che si avvale delle materie ancillari quali economia, scienze sociali etc. nel tentativo di razionalizzare le tendenze e le volontà collettive, è erede della storiografia descrittiva e tecnica di Tucidide e Polibio. Se però Erodoto, Tucidide e Polibio riconoscevano una immutabile natura umana e dei limiti cosmologici come argini all’azione dell’uomo, le storiografie moderne non solo spiegano la storia per mezzo di moralità individuali o tendenze collettive, bensì la riducono a questi fattori puramente umani e immanenti. Ciò è funzionale ad aprire la storiografia ad uno sfruttamento politico “di destra” o “di sinistra”, dato che il significato del passato viene ad essere ridotto alla possibilità di cambiare le cose, di rifondare i presupposti dell’esistenza comunitaria cioè, o per mezzo della volontà di un leader carismatico (fascismo) o per mezzo dell’organizzazione scientifica del lavoro (liberismo) e dell’organizzazione politica della massa (socialismo).
Ora entrambi questi modelli tecnocratici si rivelano errati: essi tutti condividono il presupposto riduzionistico della tecnocrazia ed essi tutti non sono giunti in duecento e forse più anni di sforzi accademici a produrre un resoconto unitario, coerente e veritiero di nessun avvenimento storico rilevante, al contrario vediamo tutti gli aderenti alle varie sette della tecnocrazia storiografica litigare nell’interpretazione di ogni singolo fenomeno, adducendo chi un legame causale chi un altro senza che nessuno possa esaurire il fenomeno stesso, confutare gli altri o sopravvivere inconfutato alla loro presenza. Tutti i lunghi annali della storia umana sono pieni non solo di misteri ad ogni loro pagina, ma di Mistero nella loro totalità e per così dire nelle singole righe e parole.
Questo generale fallimento della storiografia moderna deve portarci a rivalutare i cronachisti medievali e la loro storia dai presupposti teologici: se nessun metodo riduzionistico è capace di afferrare adeguatamente il fluire della storia, bisogna postulare principi ulteriori all’azione umana, cioè trascendenti e indisponibili all’analisi e alla manipolazione empirica, nel movimento della Storia; con ciò beninteso non è affatto provata la visione teologica specifica dei cronachisti medievali, ma si richiede più in generale una qualche visione teologica della storia — cioè una visione teocratica, non importa se si postuli il Dio Triuno i suoi angeli e gli angeli caduti o i bodhisattva e i kalpa ricorrenti, o ancora un Nulla inconoscibile e irrazionale come fa Montale in una sua poesia e H. P. Lovecraft nella sua narrativa. Ad ogni buon conto, con ciò si è spostato il terreno della discussione storiografica dai fatti e dalle teorie socio-politiche alla teologia, unica discussione sincera e valevole nella vita dell’uomo.